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Attualità
Attualità, 10/2019, 15/05/2019, pag. 315

Due donne di valore

La sposa ebrea e Lucrezia Borgia

Piero Stefani

Il sabato è considerato dalla tradizione ebraica sotto due immagini, dotate entrambe di precisi riscontri liturgici: il settimo giorno è un ospite e una sposa. Il sabato è considerato innanzitutto un giorno particolare che viene verso la comunità che lo accoglie, è un ospite che va trattato con il dovuto riguardo. Occorre però spingersi anche oltre. In ebraico il termine shabbat è di genere femminile, questa caratteristica ha favorito la scelta, alimentata dalla corrente cabbalistica, di celebrarla come sposa della comunità d’Israele.

Nell’ebraismo i giorni iniziano allo spuntare delle prime tre stelle, dunque a sera (cf. Gen 1,5). Dopo che nelle case si è eseguita la cerimonia domestica tipicamente femminile dell’accensione delle luci del sabato, in sinagoga si effettua la qabbalat shabbat («ricevimento del sabato»). La liturgia è composta di vari salmi e inni, tra essi il più noto (ispirato dal Cantico dei cantici) è il Lekhà dodì («Vieni, mio amato») composto dal cabbalista Mosheh Alqabez (ca. 1505-1575): «Vieni, o mio amato, incontro alla sposa; accogliamo il volto del sabato...».

Ritornato a casa dopo la cerimonia sinagogale, il marito, secondo la tradizione, rivolgendosi alla moglie, le recita il brano conclusivo del libro dei Proverbi. È un inno dedicato alla «donna di valore» (cf. Pr 31,10-31). La figura sponsale sabbatica raccorda la sinagoga con la casa. Solo immagine nel primo caso, mentre è realtà nel secondo? Un taglio così netto sarebbe eccessivo. Da un lato la propria sposa è adornata con lo spirito del sabato, mentre dall’altro la shabbat è accolta come sposa proprio perché connessa a una vita coniugale effettiva. Secondo l’ebraismo tradizionale era consigliato agli sposi avere rapporti sessuali proprio in quella notte.

Inno di lode della sposa ebrea

Eshet chail («donna di valore») è un componimento poetico le cui lettere iniziali dei singoli versi sono disposte in successione alfabetica. Un espediente stilistico non raro nella Bibbia (cf. per esempio il Sal 119 o il Libro delle lamentazioni) volto a indicare la presenza di una qualche forma di totalità. Secondo la più comune interpretazione rabbinica, la lode e il ringraziamento della sposa sono rivolti alla donna a motivo della sua dedizione verso il marito e i figli.

In questo modo il nostro brano diviene, da un lato, un atto di riconoscenza verso la consorte e, dall’altro, la prefigurazione della donna ideale che s’impegna per il bene della casa (vv. 11-19) ed è generosa verso i poveri (v. 20). Le sue azioni e i suoi preziosi consigli divengono fondamentali e ragione d’orgoglio per il marito e i figli, che la lodano in pubblico per la sua sagacia e per l’opera delle sue mani che ignorano l’ozio (vv. 20-29). Di fronte a tante virtù anche la bellezza fisica passa in secondo piano; quanto davvero conta è il timor di Dio (vv. 30-31).

L’idea di una totalità presente nell’inno alfabetico ha indotto alcuni commentatori ebrei moderni a leggere il brano come la descrizione della vita di una donna virtuosa dal giorno del suo matrimonio fino a quello della sua morte. All’inizio (vv. 11-22) ella si presenta come una donna giovane e attiva che ama apparire bella ed elegantemente vestita con abiti di «bisso e porpora», ma poi (vv. 23-27) la sua vita appare in declino.

Il marito, ormai in età avanzata, siede tra «gli anziani della città» e lei stessa, forte della sua esperienza costruita con anni di fatica e di lavoro, non ha più paura di ciò che il futuro le può riservare, perciò si permette di dare buoni consigli. Le sue forze cominciano ormai a vacillare e ora può solo sovrintendere all’andamento di quella casa che aveva sempre gestito con amore e che viene ora curata da altre donne più giovani e fisicamente più forti di lei.

Secondo questa lettura, l’ultima parte dell’inno (vv. 28-31) ci appare come un’elegia funebre recitata davanti alla bara della donna ormai morta e pronta per essere sepolta. I figli «si alzano» (v. 29) dalla terra sulla quale si erano seduti affranti dal dolore e assieme al vecchio padre iniziano a parlare di quanto ella ha compiuto durante la sua vita. Colei che un tempo appariva bella d’animo e d’aspetto vive ora nella mente di quanti le sono stati vicini e l’hanno amata. I rabbi hanno insegnato che solo chi lascia di sé un buon ricordo nel mondo terreno può dirsi veramente immortale: «I giusti anche nel momento della loro morte sono considerati vivi». Secondo rav Roberto Colombo: «È forse a questa chiave di lettura che si deve l’usanza di recitare i primi e gli ultimi versetti del Èshet Chàil durante i sette giorni di lutto che seguono la sepoltura di una donna».1

Un modello diverso di figura femminile

Nei giorni del lutto, collocati al di fuori di ogni contesto sabbatico, l’inno posto a conclusione dei Proverbi diventa una forma per celebrare il congedo dalla vita della propria sposa e della propria madre. Coloro che le sono sopravvissuti non dimenticano il suo valore. L’elogio riguarda quanto da lei compiuto in questa vita. Siamo di fronte a una forma di ricordo domestico ben comprensibile anche alla sensibilità contemporanea.

Va da sé che questa composizione innica è stata sempre conosciuta anche nel mondo cristiano. Pure in quest’ambito i commenti e le interpretazioni sono state varie, alcune di esse inattese, non foss’altro perché applicate a donne in genere circondate da una fama tutta diversa.

Nel novero di queste applicazioni sorprendenti vi è anche la lettura proposta dal domenicano Tommaso Caiani, discepolo diretto di Girolamo Savonarola. Si tratta di una lettera scritta per rispondere ad alcuni quesiti sollevati a proposito dell’inno da una donna che la «leggenda nera» di origine ottocentesca ha collocato, fallacemente, su tutt’altre sponde: Lucrezia Borgia.2

Scrive Caiani:

Illustre Signora voi vedete l’Italia piena di donne grande (...) nondimeno per quello che si vede di fuora poche son quelle che abbino riscevuto da Dio el lume del ben vivere che ha l’Excelentia Vostra, chome sapete che io so, però vi exorto ad exdere in santità di vita tutte l’altre, secondo che il grado vostro può sopportare et ch v’è permesso da chi voi siete obbligata, acciò che la canzone si possa cantare di voi et maxime le parole che seguitano: multa filiae congragaverunt divitias, tu supergressa es universas. Molte donne da bene, nobile e grande vivono bene, ma voi l’avete superate tutte. Perché la gloria temporale, stato, belleza, richeza, giovaneza fallax imago et chome immagine fallace che presto si muta o che dispare, et vana est pulchritudo, ogni belleza humana è un fumo, mulier timens Dominus ipsa laudabitur, la donna che teme Iddio è laudabile et Iddio dirà alla morte, agl’angeli date ei de fructu manuum suarum et laudent eam in portis opera sua. Pigliate l’anima sua et segnate l’opera sua buona, accioché nel giudicio la sia laudata et glorificata chon gl’altri electi miei. Il che Iddio vi conceda. Amen.

 

Nelle righe vergate da Caiani, l’inno è diventato canzone. Fra’ Tommaso intrattenne una corrispondenza con Lucrezia Borgia nella sua qualità di direttore spirituale e confessore negli anni in cui la vita di fede della duchessa di Ferrara si fece più intensa. La lettura da lui proposta dell’inno biblico è orientata a un congedo dalla vita terrena che, per quanto ancora da venire, è già avvertito in qualche modo prossimo.

In effetti Lucrezia sarebbe morta, per le conseguenze di un suo ennesimo parto, a trentanove anni il 24 giugno 1519 (500 anni fa!). Com’è proprio della fede cristiana, fra’ Tommaso proietta il «frutto delle mani» della «donna di valore» verso un «mondo altro» più vero di questo che è dato raggiungere solo passando attraverso la morte.

Quella di dover morire è sorte comune. Non è però da tutti avvertire in modo autentico di essere prossimi al congedo; ci sono, lo si sa, morti repentine. Lucrezia invece, per così dire, visse la propria morte; sapeva, in virtù di quella che riteneva una grazia, che le era «forza concedere alla natura», guardava però anche all’aldilà. L’uno e l’altro aspetto sono testimoniati da queste righe, rivolte a papa Leone X, dettate da Lucrezia Borgia pochi giorni prima del suo passaggio all’altra vita:

Sanctissimo padre e Beatissimo Signor mio colendissimo, con ogni possibile reverentia d’animo basio li santi piedi di Vostra Beatitudine, et humilmente me raccomando in la sua santa gratia: havendo io per una difficile gravidanza patito un gran male di più di duo mesi: come a Dio piacqui a XIIII del presente in aurora hebbi una figliola e speravo che essendo scaricata del parto chel mal mio anche si dovesse alleviare: ma è successo il contrario in modo tale che mi è forza concedere alla natura: e tanto di dono mha fatto il Clementissimo mio Creatore che io cognosco il fin’ della mia vita e sento che fra poche hore ne sarò fuori havendo però prima ricevuti tutti li Santi Sacramenti de la chiesa: e in questo punto come christiana benché peccatrice mi son racordata di supplicar a vostra Beatitudine che per sua benignità si degni di dare del Thesoro Spirituale qualche suffragio con la sua Santa Benedizione all’anima mia e così devotamente la prego et in sua gratia raccomando il Signor consorte e i figlioli miei tutti servitori di paterna vostra Beatitudine.

In Ferrara il dì XXII di Zugno 1519 alle ore XIIII.

Humil serva di vostra Beatissima

Lucrezia da Este

 

Lucrezia, «donna di valore», si stava preparando a passare da questa vita all’altra.

 

1 http://www.morasha.it/zehut/rc03_eshet.html

2 Cf. G. Zarri, La religione di Lucrezia Borgia. Lettere inedite del confessore, Roma nel Rinascimento, Roma 2006.

Tipo Parole delle religioni
Tema Ebrei Teologia
Area
Nazioni

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