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Attualità
Attualità, 16/2019, 15/09/2019, pag. 486

Dipingendo sento la vita

Le lettere di Vincent Van Gogh al fratello Theo

Mariapia Veladiano

È un regalo poter sfiorare e poi ancora tornare indietro e fermarsi e immaginare e sentire la storia di uno spirito immenso, capace di partire dal proprio dolore e arrivare a quello del mondo e poi ricomprenderlo nella sua arte con una chiarezza pittorica, con il colore, infine con la sapienza del colore, come lui stesso scrive più volte.

 

A «volte non posso credere di avere solo trent’anni, mi sento più vecchio». Così scrive Van Gogh al fratello (Lettere a Theo, Guanda Milano 2017, 191). Poi chiarisce: «Mi sento più vecchio solo quando penso che la gente che mi conosce mi deve considerare un fallito». Eterna lotta contro il giudizio. Il dolore del giudizio. Ha 29 anni, morirà a 37, vecchio non sarà mai, anagraficamente, ma la compagnia dello sguardo giudicante sulla propria vita non lo lascia un solo giorno e gli toglie il respiro.

Le lettere, si sa, sono bellissime. Per mille motivi. È un regalo poter sfiorare e poi ancora tornare indietro e fermarsi e immaginare e sentire la storia di uno spirito immenso, capace di partire dal proprio dolore e arrivare a quello del mondo e poi ricomprenderlo nella sua arte con una chiarezza pittorica, con il colore, infine con la sapienza del colore, come lui stesso scrive più volte.

Cerca ogni giorno di liberarsi dal giudizio del mondo che lo inchioda alla parte del fannullone: «Perché c’è fannullone e fannullone (...) c’è il fannullone per pigrizia e per mollezza di carattere, per la bassezza della sua natura (...) e il fannullone per forza, che è roso intimamente da un desiderio d’azione, che non fa nulla perché (...) è come in una prigione, chiuso in qualcosa, per la fatalità delle circostanze» (105).

Da Theo vuole essere compreso fino in fondo: «Un uccello chiuso in gabbia in primavera sa perfettamente che c’è qualcosa per cui egli è adatto, sa benissimo che c’è qualcosa da fare ma che non può fare (...) Dice a se stesso: “Gli altri fanno il nido e i loro piccoli e allevano la covata”, e batte la testa contro le sbarre della gabbia. E la gabbia rimane chiusa, e lui è pazzo di dolore» (105). E conclude con una modernità che lascia straziati: «Talvolta la prigione si chiama pregiudizio, malinteso, ignoranza fatale di questa o quest’altra cosa, sfiducia, falsa vergogna» (ivi).

Una rassegna di moderni peccati, quelli che ci avvelenano i giorni. Van Gogh ha un bisogno lancinante d’essere amato. Come tutti sì, ma lui con l’intensità necessaria a chi sente che non può contare fino in fondo nemmeno sulla comprensione dei genitori e che ha paura, come ha paura chi non ha potuto fare scorta di affetto, ha paura che anche il fratello Theo lo abbandoni. Sente l’assoluta impossibilità, in ogni momento della sua vita, ad accettare quella «sorta di fredda rispettabilità» (260) che certamente è di suo padre e che insidia anche l’amatissimo fratello Theo, amato e un po’ temuto, perché da un momento all’altro può togliergli il sostegno, anche se non lo farà mai, e per questo a volte blandito, a volte minacciato, a volte supplicato.

Chiama «gesuitismi» i ricatti morali dei genitori, che lo vorrebbero accomodato in una qualche rispettabilità e rivendica il diritto di dire di sé «io sono un artista», anche se non ancora riconosciuto dal mondo, perché un significato aggiunto di questa parola è l’essere «sempre alla ricerca, senza mai trovare» (142). Il che è vero ancora una volta per ogni condizione umana. Artista, scrittore, padre, madre, uomo e donna: possono dirlo di sé solo quelli che il mondo riconosce ufficialmente tali? Consacrati dal successo o da una condizione di stabilità riconosciuta?

Siamo tutti in ricerca, Van Gogh lo rivendica in una società che ordina le persone sulla base della ricchezza: «Al giorno d’oggi il denaro corrisponde a quanto una volta era il diritto del più forte» (144) e anche all’arte subdolamente questa società suggerisce il bon ton del vestito buono nei quadri che ritraggono il popolo.

Poi c’è la scrittura. Ogni volta che non prevale l’amarezza o il rancore, soprattutto verso i suoi genitori, Van Gogh scrive meravigliosamente. Ha una scrittura visiva quando racconta i luoghi in cui vive: «Piove e fa piuttosto freddo, ma è pieno di sentimento, particolarmente magnifico per le figure che risaltano contro alle strade bagnate e alle vie in cui viene riflesso il cielo» (185, all’Aia). Una scrittura introspettiva, modernissima, quando racconta il suo dolore d’artista senza pace.

Fa impressione leggere sapendo com’è andata a finire. Riconosciamo nelle sue descrizioni di quadri che nessuno voleva acquistare i capolavori che andiamo a visitare nei musei del mondo: «Spero di avere un po’ di fortuna con quel quadro dei mangiatori di patate». (269) Ne parla diffusamente, nella lettera originale c’è anche un bellissimo bozzetto, un quadretto già composto dei mangiatori. Van Gogh difende la scelta di dipingere contadini veri: «Dipingere la vita dei contadini è una cosa seria, e mi sentirei colpevole se non cercassi di creare dei quadri che destino pensieri seri per chi pensa seriamente all’arte e alla vita» (273).

C’è una poetica di impegno, in nessun modo moraleggiante. «Quadri del genere possono insegnare qualcosa» alla gente di città (273). Sa che la sua arte non viene compresa: «Non posso farci niente se i miei quadri non si vendono» (345). La pittura è «un’amante costosa» (324), ma solo dipingendo «sento la vita» (315). Fino in fondo fedele a questo sentire: «Eppure bisogna che continuiamo a produrre cose vere e oneste» (273).

Tipo Riletture
Tema Cultura e società
Area
Nazioni

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