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Adultescenza: vizio o virtù?

Adultescenza: cos’è?

Tra le circa 1500 parole nuove che lo Zingarelli 2014 ha incluso, c’è anche il neologismo: “adultescente” (kidult in inglese).

«Adultescente s. m. e f. Persona adulta che si comporta con modi giovanili, compiacendosi di ostentare interessi e stili di vita da adolescente».

Il sostantivo, quindi, rimanda a quelle persone che, pur avendo raggiunto una età cronologica e biologica adulta, permangono in atteggiamenti e identità dai forti tratti adolescenziali.

Il fatto che il neologismo sia stato incluso nello Zingarelli, è segnale che il termine era già ampiamente in uso e che svariate riflessioni (o ipotesi) su questo fenomeno erano già state elaborate, da molte prospettive: sociologiche, economiche, pedagogiche, etiche… Le conclusioni di queste riflessioni – che riflettono su cause ed effetti – sono tendenzialmente negative. Non intendo ripercorrere in queste poche righe l’interessante e feconda analisi del fenomeno, di cui condivido pienamente le perplessità e le preoccupazioni. In questo breve post vorrei verificare se è possibile recuperare una pista di indagine positiva per la riflessione etica.

Due etimologie in supporto

Adulto: è il participio passato del verbo latino adolesco-adolescere (crescere, svilupparsi). Indica colui che è già cresciuto e già sviluppato.

Adolescente: è il participio presente del medesimo verbo. Indica colui che sta crescendo, che si sta sviluppando.

E se dal neologismo «adultescente» (che è quindi unione di un participio passato e di un participio presente) recuperassimo una tensione umana, mai risolta, sempre in fieri, di una “inquietudine” tra “già” e un “non ancora”? E se non considerassimo l’adulto come qualcosa di statico e l’adolescente come qualcosa di talmente dinamico da non essere ancora definito? E se riuscissimo a recuperare un umano dinamismo identitario e progressivo tra il participio passato, il participio presente, in un’ottica di participio futuro? No, non voglio introdurre un ulteriore neologismo (adulturo). Ma il considerare l’adulto come qualcosa di già definitivamente dato e/o l’adolescente come colui che ha di fronte tutte le infinite possibilità è altrettanto sbagliato.

Duccio Demetrio, nel suo testo Elogio dell’immaturità. Poetica dell’età irraggiungibile, ci propone la teoria degli “immaturi poetici”. Diversamente dagli “immaturi infantili” (che si sottraggono alle responsabilità e agli obblighi), oppure dagli “immaturi parassiti” (che si rifiutano di crescere e ravvivano la dipendenza da altri), gli “immaturi poetici” sono coloro che attraversano consapevolmente le età della vita, nella convinzione di non essere ancora del tutto nati al mondo. In-maturi: dove “in” – in questo caso – non indica una privazione, ma quella spinta alla progressione personale.

Adultescenti o “immaturi (poetici)”?

Sia il termine “adultescente” che il termine “immaturo (poetico)” (con i rispettivi paradigmi) rimandano al fatto che le età della vita non sono stagne, anzi, al contrario, possono compenetrarsi: dal punto di vista etico (e non solo) in modo negativo nel caso di “adultescente”, in modo positivo nel caso di “immaturo (poetico)”. Se quindi, da un lato, siamo chiamati a non ingenerare noi stessi dinamiche di “adultescenza” (con i nostri personali atteggiamenti e/o nelle relazioni sociali a breve, e/o medio, e/o lungo termine), dall’altra siamo altresì chiamati a considerare eticamente il vantaggio di questa “immaturità (poetica)”.

Ecco quindi che, rispondendo al titolo di questo post – per me – “adultescenza” è vizio, ma “immaturità (poetica)” è virtù. Mi piacerebbe un confronto con i nostri lettori, direttamente su questa pagina o sulla nostra pagina “Moralia” di Facebook: come diceva, nel suo post di riapertura di Moralia, l’amico Simone Morandini: «Non desideriamo spettatori, ma lettori, consapevoli e pensanti».

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