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Amare e ubbidire

XXXI domenica del tempo ordinario

Dt 6,2-6; Sal 18 (17); Eb 7,23-28; Mc 12,28-34

Nella discussione su quale sia il primo fra tutti i comandamenti, Marco (a differenza di quanto avrebbe fatto Matteo, 22,34-35) non introduce alcuna nota polemica. Al contrario, il passo attesta una profonda affinità tra lo scriba e Gesù. Non a caso la spinta per porre la domanda era nata dal sincero apprezzamento rispetto al modo in cui Gesù, di fronte alla provocazione dei sadducei, aveva difeso la risurrezione dei morti (cf. Mc 12,18-28). Tutto lascia quindi supporre che lo scriba fosse di tendenze farisaiche (a differenza dei sadducei, i farisei credevano nella risurrezione; cf. At 23,6-8).

Per comprendere il brano evangelico è fuorviante insistere sulla novità portata in questo caso da Gesù. Siamo piuttosto di fronte a un dialogo fraterno tra due interpreti della parola rivolta dal Signore a Israele.

Alla domanda postagli dallo scriba di quale fosse il primo fra tutti i comandamenti, Gesù rispose citando l’«Ascolta Israele» (Dt 6,4-9); al primo aggiunse subito un secondo comandamento: l’amore del prossimo (Lv 19,18), infine propose una frase volta a unificarli ulteriormente: «Non c’è altro comandamento più grande di questi» (Mc 12,31).

Sia l’amore di Dio sia quello del prossimo sono quindi intesi come comandi. È mai possibile comandare di amare? E farlo nei confronti del Creatore, che ci trascende infinitamente e che resta invisibile ai nostri occhi (cf. 1Gv 4,20)?

La risposta è in definitiva semplice (il che non equivale a dire che sia facile): amare il Signore significa compiere la sua volontà. L’amore è un’obbedienza grata e consapevole. Anche in italiano cogliamo la derivazione etimologica di «obbedire» da «audire». Anzi, per giungere a questa conclusione basta il linguaggio quotidiano: un’espressione come «dammi ascolto» si colloca di diritto nella sfera pratica. La voce che passa per gli orecchi mira all’azione. «Ascolta Israele» è una parola rivolta dal Signore al suo popolo perché sia eseguita. L’unità tra primo e secondo comandamento trova qui il proprio fondamento: è volontà del Signore che ognuno ami il prossimo suo (cf. Lv 19,18).

L’«Ascolta Israele» è un invito a udire la Parola per comunicarla e metterla in pratica. Nella versione in cui è tuttora recitato nell’ambito della liturgia ebraica, lo Shema‛ è una preghiera costituita da tre sezioni bibliche (cf. Dt 6,4-9; 11,13-21; Nm 15, 37-41) precedute e seguite da benedizioni. Un maestro ebreo del secondo secolo d.C., Yehoshua‛ ben Qarcha, s’interrogò sul senso della successione liturgica tra la prima sezione dello Shema‛ e la seconda («Se ascoltando ascolterete [vale a dire, ubbidirete]...»; Dt 11,13-21). La sua conclusione è la seguente: prima occorre prendere su di sé «il giogo del Regno dei cieli» (primo brano) e solo in seguito prendere su di sé «il giogo delle mizwot (precetti/comandamenti)» (Mishnah Berakhot 2,2). In altre parole, l’osservanza dei comandamenti consegue all’accoglimento della signoria di Dio.

Nella risposta di Gesù l’amore del prossimo riassume in sé tutti gli altri precetti della Legge (cf. Rm 13,8-10; Gal 5,14; Gc 2,8-11). In questa luce si comprende meglio l’unità dei primi due comandamenti. Anzi diviene più chiaro anche il detto conclusivo: «Vedendo che egli aveva risposto saggiamente, Gesù disse: “Non sei lontano dal regno di Dio”» (Mc 12,34). L’espressione riassuntiva della prima parte dello Shema‛ nella tradizione rabbinica è, come si è visto, proprio quella di accettare su di sé il giogo del regno di Dio.

Il termine «giogo» (cf. Mt 11,28-30) indica non un gravame, bensì il simbolo di un’obbedienza operosa. Si accoglie su di sé il regnare del Signore e, mettendo in pratica con amore il suo volere, si testimonia che la sua signoria, secondo la promessa profetica, dovrà estendersi a tutta la realtà: «Il Signore sarà re di tutta la terra. In quel giorno il Signore sarà unico e unico il suo nome» (Zc 14,9).

 

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