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Amatevi gli uni gli altri

VI domenica di Pasqua

At 10,25-26.34-35.44-48; Sal 98 (97); 1Gv 4,7-10; Gv 15,9-17

Nei lunghi discorsi di congedo posti da Giovanni sulle labbra di Gesù compare per due volte il comando dell’amore fraterno: «Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri» (Gv 13,34); «Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi» (Gv 15,12; cf. 1Gv 4,7). Per Gesù che si sta avviando alla sua Pasqua sono parole di congedo, ed è soprattutto questo loro carattere a renderle nuove. In realtà esse, com’è tipico di ogni eredità, si presentano, a un tempo, nuove e antiche: «Carissimi, non vi scrivo un comandamento nuovo, ma un comandamento antico, che avete ricevuto da principio. Il comandamento antico è la Parola che avete ricevuto» (1Gv 2,7-8).

Il comandamento dell’amore fraterno si presenta all’inizio dell’accoglimento della Parola, e nel contempo costituisce il sigillo definitivo di essere davvero alla sequela di Gesù: «Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni verso gli altri» (Gv 13,35).

L’antichità e la novità di questo comandamento si confrontano con il precetto del Levitico, che ordina di amare il prossimo come sé stessi (cf. Lv 19,18). La sua validità è perenne; esso infatti ricapitola in sé tutta la Legge (cf. Gal 5,14; Rm 13,9-10; Gc 2,8).

Il precetto è però privo del carattere di congedo che contraddistingue il comandamento nuovo. Congedo non significa abbandono o lontananza, vuol dire passaggio attraverso la morte intesa come dono della propria vita. Il termine «amore» (agape) non è frequente in Giovanni; la sua presenza si concentra proprio nel 15° capitolo (cf. Gv 5,42; 13,35; 15,9.10.13; 17,26); il culmine lo si trova là dove si afferma: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» (Gv 15,12).

In effetti in Paolo si potrebbe trovare l’attestazione di un amore ancora maggiore, quello di dare la vita per i propri nemici: «Ora, a stento qualcuno è disposto a morire per un giusto, forse qualcuno oserebbe morire per una persona buona. Ma Dio ha mostrato il proprio amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo morì per noi» (Rm 5,7-8). Vi è però una differenza radicale: lì si annuncia un unicum, mentre nel quarto Vangelo si prospetta un comando posto all’insegna sia dell’imitatio Christi (amatevi gli uni gli altri «come io ho amato voi» Gv 15,12), sia della bilateralità. La reciprocità è sigillo dell’amicizia, mentre essa non si dà là dove domina l’inimicizia.

La presenza del termine «amici» ha un peso determinante. L’amore reciproco s’inserisce entro l’odio del mondo. Se così si potesse dire, esso appare un amore assediato. Il comandamento di amarsi gli uni gli altri nella misura del Figlio che dona la propria vita è immediatamente seguito dall’annuncio dell’odio del mondo; anche questo tratto accomuna il Figlio e i suoi discepoli: «Se il mondo vi odia, sappiate che prima ha odiato me» (Gv 15,18).

Alla radicalità dell’amore corrisponde, sull’altro versante, la forza dell’odio. In questo senso si deve parlare di amici e non di nemici. Neppure ora tutto è garantito. Il rischio è che la dinamica prospettata dal quarto Vangelo sfoci in uno spirito tendenzialmente settario, in cui un «noi» amicale si contrappone a un «voi» o a un «loro» ostili. L’amore tra gli amici è realtà grande, ma lo è specie se essa, lungi dal creare circoli privilegiati, vive in un orizzonte che, per quanto non allargabile al di là di certi limiti, non erige ostacoli verso l’esterno e che, per quel che le è possibile, cerca di sgretolare la muraglia di odio da cui è circondata.

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