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Autorità e conversione

XXVI domenica del tempo ordinario
Ez 18,25-28; Sal 25 (24); Fil 2,1-11; Mt 21,28-32

 

            La breve parabola di questa domenica si colloca sia dopo l’azione compiuta nel tempio di Gerusalemme, in virtù della quale Gesù scacciò i mercanti e rovesciò i tavoli dei cambiavalute (cf. Mt 21,12-17), sia dopo il fatto che il giorno seguente egli tornò nel tempio per insegnare (cf. Mt 21,23).

            Questi due atti di stile profetico sollecitano i capi dei sacerdoti, gli scribi e gli anziani a chiedere a Gesù: «Con quale autorità fai queste cose?» (Mt 21,23). In termini correnti si potrebbe trascrivere l’evento nel modo seguente: chi sei tu, un semplice laico che non appartiene né alla classe sacerdotale né alla cerchia degli anziani e degli scribi, per comportarti così? In vari settori della Chiesa cattolica in cui ancora molti atti sono preclusi ai laici (tanto uomini quanto donne) la reazione, mutatis mutandis, non sarebbe molto diversa. Dove opera un principio gerarchico è inevitabile che sorga una domanda sull’autorità di un estraneo.

            Una classica battuta contemporanea definisce un ebreo colui che risponde a una domanda facendone un’altra. Colto sotto questa angolatura, Gesù è un perfetto ebreo. La sua risposta infatti fu un’altra domanda. Egli chiede ai propri avversari se il battesimo di Giovanni venisse dal cielo o dagli uomini. Essi non risposero: se avessero detto che veniva da Dio per loro sarebbe stato impossibile spiegare perché non ci avevano creduto, se avessero affermato che proveniva dagli uomini temevano la folla che considerava Giovanni un profeta (un’annotazione quest’ultima che sembra quasi alludere al sensus fidei presente nel popolo di Dio). Anche Gesù non risponde: egli non svela quale sia la propria autorità; tuttavia con il suo quesito egli accosta, implicitamente, la propria sorte a quella di Giovanni, andato ormai incontro a una morte violenta (cf. Mt 21,24-27).

            La breve parabola dei due fratelli si colloca in questo contesto: il primo disobbedisce a parole e ubbidisce nei fatti, il secondo si comporta in modo diametralmente opposto. Quanto unisce questo passo a quello precedente è il riferimento a Giovanni il Battista. I sacerdoti e gli anziani del popolo hanno udito la predicazione avvenuta sulle rive del Giordano che chiamava alla conversione, tuttavia non vi hanno dato ascolto: «I pubblicani e le prostitute invece vi hanno creduto» (Mt 21,32). Qui si manifesta il legame con i versetti nei quali Gesù aveva posto ai capi dei sacerdoti e agli anziani del popolo la domanda se il battesimo di Giovanni venisse dal cielo o dagli uomini. La risposta verbale rimane in sospeso; di contro, sul piano pratico, essa trova un riscontro ben chiaro. Nel momento della verifica i custodi della tradizione non imboccarono la via della conversione.

            Il secondo figlio rappresenta i capi dei sacerdoti e gli anziani del popolo, che aderiscono formalmente ai comandamenti di Dio ma non hanno discernimento dei tempi che chiamano a mutar vita. Il primo figlio è colui che, dopo aver percorso una via sbagliata, è capace di pentimento, vale a dire di «tornare» (il verbo biblico della conversione) sui propri passi. Tuttavia la collocazione della parabola alla vigilia della Passione (preannunciata già per tre volte, cf. Mt 16,21; 17,22; 20,18) sta a indicare che in quel momento sulla vita di Gesù – come in precedenza era avvenuto per Giovanni – il peso del rifiuto prevale su quello dell’obbedienza nata dal pentimento. Subito dopo questo passo Matteo porrà, non a caso, la parabola dei «vignaioli omicidi» (Mt 21,33-46). La fede dei pubblicani e delle prostitute non riesce a sottrarre Gesù alla morte. L’antico rifiuto delle élite nei confronti di Giovanni si prolunga ora in quello riservato a Gesù. La figura cardine della parabola è, nei fatti, quella del secondo figlio, mentre, nella speranza, è quella del primo.

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