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Basta la salute?

«Quando c’è la salute…», «Basta che ci sia la salute…». Queste e altre affermazioni simili esprimono, nella loro immediatezza, un’indubbia gerarchia di valori: il valore salute viene prima di quello del benessere economico o di molti altri. Ma a sua volta la salute viene dopo valori come il benessere spirituale, e in molti casi anche psico-relazionale.

Lo esprimeva con disarmante semplicità un mio anziano professore di liceo quando, chiedendogli come stesse, mi rispondeva: «Come vuoi che stia? Ci vedo poco per la cataratta, respiro male per l’enfisema, cammino male per l’artrosi però, grazie a Dio, sto bene». La salute infatti, per usare una terminologia matematica, è maggiore della somma delle parti.

La gerarchia dei valori, poi, non è solo ontologica ma anche situazionale, essendo correlata all’urgenza, alla necessità, alla possibilità, alle diverse circostanze in cui si colloca.

Oggi il problema torna a porsi con drammaticità di fronte a provvedimenti che poniamo in atto «per il bene» della persona, per non farla ammalare, per farle superare le condizioni di rischio che potrebbero essere per lei pericolose. Ma è realmente così? O stiamo sopravvalutando il valore della salute fisica rispetto ad altri?

Com’è noto, già al tempo della Scolastica si poneva il quesito: Voluntas aegroti aut bonum aegroti suprema lex? La legge suprema è la volontà del paziente o il suo bene? Il dilemma si è risolto nel tempo a favore del primo elemento, che ha portato alla valorizzazione di prassi quali la donazione d’organi, il consenso informato, le disposizioni anticipate di trattamento ecc. Ma ha anche portato a una certa assolutizzazione dello stesso, consentendo nelle legislazioni civili l’interruzione volontaria della gravidanza o l’eutanasia propriamente detta.

Oggi però stiamo assistendo, in modo forse altrettanto improprio, a uno spostamento verso il secondo termine, per cui il «bene» della persona viene ritenuto oggettivamente quello della salute fisica, prioritario sugli altri e da perseguire a ogni costo. In tal senso mi piace riportare la testimonianza di un nonno, raccolta da un collega:

«Il COVID mi sta togliendo la vita. Incontrare mio figlio e la nipotina mi davano luce, ora questa si è spenta. Mi dicono che vederli è pericoloso. Ma cosa mi importa? Morirò comunque, Dio solo può dire quando ma certo sono vecchio. Ho tante cose da dire loro, tanti abbracci da dare e da ricevere prima di salutarli per sempre! Non m’importa se rischio di ammalarmi: vorrei vedere la nipotina che salta sulle mie ginocchia, raccontarle le favole, leggerle i libri, giocare a carte con lei. Vorrei parlarle della meravigliosa nonna che lei quasi non ricorda più, della sua tenerezza, di come è cresciuto suo padre, dei posti dove affondano le radici della nostra famiglia. Vorrei semplicemente guardarla negli occhi, sentire il suo profumo, vederla fiorire nell’alba della vita e darle la mano. Non privatemi di tutto questo dicendo che è per il mio bene. Non lo è. Non ditemi che potrò farlo dopo: il mio tempo sta per scadere, non avrò un “dopo”. Vorrei fare capire a mio figlio che dice: “Non veniamo per proteggerti!”, che la vita non si misura dalla quantità dei giorni ma dalla loro qualità. Io ho bisogno solo di sentire il suo amore e quello del mio tesoro di nipotina. Solo di amore e di abbracci ho bisogno».

Questa e altre testimonianze similari dovrebbero, forse, indurci a riflettere sul significato valoriale delle varie componenti inerenti la «salute» che, pur con tante critiche, fu a suo tempo definita dall’Organizzazione mondiale della sanità come «pieno benessere fisico, psichico e sociale». Oggi ci stiano preoccupando solo del primo dei tre termini. Abbiamo bambini tristi privati della necessaria socializzazione, adolescenti in cui è aumentato il numero di suicidi, ragazzi prigionieri di vari Tik Tok e in preda al cosiddetto hikikomori, nonni sani ma depressi, famiglie agli arresti domiciliari che si relazionano col mondo attraverso uno schermo, lavoratori sul lastrico. Però cerchiamo di fare di tutto per loro «salute».

Quindi? Non proteggerli? Non fare i vaccini con le giuste priorità? Certamente no! Anche su questo blog siamo stati in molti a ribadire la loro importanza. Tuttavia occorrerebbe una serena riflessione sul senso di quello che stiamo facendo, che non è detto si risolva sempre con il maggior bene dell’altro. Forse anche un maggior ruolo decisivo e partecipativo della coscienza e dell’autonomia, nel rispetto e nella salvaguardia del bene di tutti, sarebbe opportuno.

 

Salvino Leone, medico, è docente di teologia morale e bioetica alla Facoltà teologica di Sicilia e vicepresidente dell’ATISM. Tra le sue opere più recenti Bioetica e persona. Manuale di bioetica e medical humanities, Cittadella, Roma 2020.

Commenti

  • 22/02/2021 A. Garzena

    Ottimo spunto di riflessione. Mi interesserebbe qualche Sua considerazione anche su un altro luogo comune: "bisogna difendere i più deboli", che implicitamente intende riferirsi agli anziani. Ma chi sono i più deboli, indifesi, non protetti, vittime di torti generazionali? Forse, in questa vicenda della pandemia chi ci rimette di più sono i giovani e sono loro i più "deboli".

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