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C’eravamo tanto odiati. Come parlare di politica?

Ascoltiamo Leopardi: «Quel poco, dico, che v’ha in Italia di conversazione, essendo non altro che una pura e continua guerra senza tregua, senza trattati, e senza speranza di quartiere, benché questa guerra sia di parole e di modi e sopra cose di niuna sostanza, pure è manifesto quanto ella debba disunire e alienare gli animi di ciascuno da ciascuno, sempre offesi nel loro amor proprio, e quanto per conseguenza sia pestifera ai costumi divenendo come un esercizio per una parte, e per l’altra uno sprone dell’offendere altrui e della nimicizia verso gli altri» [Giacomo Leopardi, Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli italiani, 1824].

Che il «romantico» genio di Recanati abbia colto nel segno? La «nazione italiana», allora solo un sogno pre-risorgimentale, risulta strutturalmente carente di un autentico spirito di confronto dialogico, che non sia fazioso, ma attuato attraverso la pratica dell’ascolto e della condivisione.

Piuttosto domina nel dibattito pubblico una «guerra senza tregua», in nome di interessi individuali e di successi personali, che finisce per disgregare il tessuto sociale. Il Discorso leopardiano denuncia l’assenza endemica di un ethos grazie al quale sarebbe possibile realizzare un progetto unitario. Il cinismo opportunista, che fa leva sulle paure vere o presunte che attraversano la società, è presente nelle fasce alte, come in quelle più umili della popolazione; con scarso rispetto per sé e per gli altri, con un pericoloso abbassamento della soglia di eticità nel giudicare comportamenti difformi e trasgressioni come negativi, anzi piuttosto mostrando per essi indulgenza, forse anche segreta ammirazione e invidia.

Amico/nemico?

Passione, senso di responsabilità e lungimiranza sono virtù indispensabili per chi ambisce al governo della «cosa pubblica», come ricordava Max Weber quasi un secolo fa. Ma restano parole soggette all’usura del tempo ed esposte a palpabili ambiguità nella loro manipolazione.

I flussi elettorali degli ultimi anni hanno mostrato l’altalena di forze politiche che hanno rapidamente guadagnato e perso consenso, determinando muscolari logiche contrappositive basate sullo schema, mai tramontato, ma indubbiamente semplicistico, del confronto competitivo tra «amico» e «nemico».

Non è mancata la passione, anzi in taluni casi il «furore», più o meno «astratto», né la certosina dedizione alla causa da parte dei vari leader, ma ha predominato la concentrazione sulla loro personalità carismatica (più che sul «pensiero» politico espresso) cui dare credito di fronte a un evidente «spaesamento» dei cittadini. Slogan, ricette semplici (e veloci, quasi da cottura a micro-onde) hanno troppo rapidamente preso il posto alla fondamentale volontà di «vedere lontano» necessaria per il governo della complessità e hanno gestito la dinamica (e il controllo) del consenso popolare nell’immediato.

Ma slogan e ricette rapide, se pure catturano il consenso, mortificano la riflessione e, in chi le impiega, rappresentano armi che si rivelano infallibilmente a doppio taglio, se non boomerang. La presunta efficienza nel rispondere ai bisogni della nazione ha costruito una maglia metallica di reiterate affermazioni ad alta intensità emotiva e a basso tasso di razionalità pratica, che ha impedito quella attitudine che Max Weber, a suo tempo, riteneva fondamentale, la lungimiranza, cioè la «capacità di lasciare che la realtà operi su di noi con calma e raccoglimento interiore», per creare un opportuno spazio di distanza riflessiva in vista di una migliore attitudine valutativa e operativa.

Hanno giustificato, nel breve termine, la possibilità di dire tutto e il contrario di tutto, incrementando il tasso di confusione anche in chi, non solo subendo una calcolata e riuscita operazione demagogica, ma per serena e critica valutazione personale, ha contribuito a costruire il consenso su un particolare «progetto» politico.

Parole facili, parole disgreganti

Così si è affinato da una parte l’esercizio da cecchini di mantra sparati sino all’usura e all’insignificanza nei confronti degli errori degli altri, e dall’altra si è cullata l’illusione che la forza delle parole per descrivere il proprio modello di rinnovamento lavorasse in vista della coesione sociale; concretamente, invece, enfatizzando oltre il dovuto la tensione tra «apparato» (corrotto) e «popolo».

Di fatto con un’opzione «antipolitica» in nome della riappropriazione della «sovranità popolare» attraverso lo strumento (ingenuo e manipolabile) della «democrazia diretta» (telematica) [cf. G. Stoker, Perché la politica è importante. Come far funzionare la politica, 2008]. Magari rispolverando l’apologia dei «sacri confini» della nazione, sdogandoli dall’oblio di lapidi quasi illeggibili murate sulle facciate di qualche comune italiano a celebrazione della «vittoria» del 1918. Magari riesumando l’antico stratagemma della religione (cattolica) come instrumentum regni, che avrebbe dovuto sortire qualche risposta critica in più da parte di chi si sforza di vivere insieme la propria fede e il rispetto per la laicità dello stato.

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