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Ciò che è irrinunciabile

XXX domenica del tempo ordinario

Es 22,20-26; Sal 18 (17) 1Ts 1,5-10; Mt 22,34-40

Tre parabole e quattro dispute. È difficile non notare questi schemi numerici all’interno dei cinque discorsi su cui i redattori han costruito l’opera matteana. È come se essi procedessero dando un ordine sistematico alla narrazione, con espedienti validi anche dal punto di vista della memorizzazione del racconto.

Il nostro lezionario non include la disputa con i sadducei sulla risurrezione (cf. Mt 22,23-33), di cui si legge la versione di Luca (cf.20,27-40) nella XXXII domenica dell’anno C, ma passa subito alla terza disputa, quella con i farisei. Il che permette una lettura congiunta con la prima disputa, non per svalutare quella intermedia sulla risurrezione, ma per cogliere un’ulteriore connessione interna.

La prima disputa infatti si era conclusa con una risposta interlocutoria: è chiaro che cosa si possa e debba restituire a Cesare, ma resta da capire che cosa restituire a Dio e come.

Chiedendo ora quale sia «un comandamento grande» (senza articolo poia entole megale, v. 36) il fariseo pone una domanda reale e concreta, secondo Matteo. Diversa è la situazione in Luca, in cui la domanda fa da sfondo alla parabola del buon samaritano. Luca inoltre presenta lo scriba come una persona poco leale, a differenza ancora di Marco, in cui Gesù ne approva l’assennatezza.

La domanda nasce dal fatto che ci sono molti precetti, alcuni più pesanti e altri meno grevi. Gesù stesso considera che alcuni siano «minimi» (mian ton entolon touton ton elachiston, Mt 5,19), eppure da osservare. Si tratta di discernere se ce ne sia uno che sia, per così dire, il precetto per antonomasia. Gesù risponde citando dapprima l’inizio dello šüma` yiSrä´ël (Dt 6,4) – un testo di cui conosciamo l’importanza, perché, recitato quotidianamente come professione di fede, entrava – ed entra ancora oggi – a pieno titolo nella preghiera che egli e il fariseo stesso praticavano. Certamente, come tutta la Torah, anche questo testo è donato da Dio e gli viene restituito pregando, e questa è già una prima risposta all’apodote di domenica scorsa. Il fariseo restituisce la Torah a colui che l’ha data e che fa di lui stesso una compiuta immagine di Dio.

Al testo del Deuteronomio è unito Lv 19,18, come fosse la seconda tavola del patto. Del resto la fede di Israele si verifica nella concretezza di rapporti sociali leali e onesti. Questa è la giustizia che deve essere di questo mondo (De Cesare) o, per dirla con l’Apostolo, la fede che si rende operante nella carità (cf. Gal 5,6) realizzando così la totale restituzione a Dio di ciò che è suo.

Non a caso il redattore mette l’articolo nella risposta e aggiunge l’aggettivo «primo» a «comandamento», aggettivo che non era presente nella domanda (e megale kai prote entole, v. 38), quasi a dire che viene individuato ciò che è irrinunciabile e che riesce a compendiare tutta la Torah. Quanto al secondo comandamento, esso è sullo stesso piano (omoia, v. 39): due tavole e un unico patto stipulato su di esse.

O, come è stato detto, «due cardini» a cui è sospesa una porta (Bauer), secondo l’immagine suggerita dal verbo krematai (v. 40): la Torah e i Profeti sono appesi e girano su questi cardini e si aprono come porta della vita. Gesù stesso, in linea con quanto proclamato nel Discorso sul monte, non vuole portare contenuti nuovi. Nuovo semmai è solo il richiamo ai Profeti, anziché alla sola Torah – richiamo che, in qualche modo, accenna al canone scritturistico –, evocando la realtà di un’alleanza mai revocata.

Se il primo comandamento realizza l’incontro tra Dio e uomo, l’aggiunta del secondo, che gli è simile, realizza l’incontro tra uomo e uomo, compiendo ciò che è sotteso dal monoteismo biblico: un Dio unico ed esclusivo che coinvolge totalmente la vita, esigendo un uomo che gli stia davanti in una relazione amicale e, al tempo stesso, un’umanità senza caste, in relazione reciproca, retta da una legge in cui tutti possono ritrovarsi.

Il colloquio tra Gesù e il fariseo, nella sua brevità, è ricco di implicazioni. In qualche modo induce all’approfondimento continuo e a non cadere nella trappola dei moralismi che si fermino alla prima lettura.

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