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Colui che continua a togliere

Is 49,3.5-6; Sal 39(40); 1Cor 1,1-3; Gv 1,29-34
II domenica del tempo ordinario

«Agnello di Dio». In tutte le messe lo ripetiamo, ma forse è proprio questa apparente notorietà a far velo a una piena comprensione di un’espressione, consueta ai nostri orecchi ma rara nella Scrittura.

Nella frase «Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo!» (Gv 1,29), il Vangelo di Giovanni concentra l’intera testimonianza del Battista. Lo indica anche un particolare: nella sua prima parte il detto viene ripetuto anche il giorno dopo (cf. Gv 1,36). Il quarto Vangelo richiama più volte il battesimo di Giovanni; anzi, unico fra tutti gli Evangeli, riporta il fatto che Gesù stesso battezzava in modo simile al Battista (cf. Gv 3,22). In quelle pagine non è però contenuta un’esplicita descrizione del battesimo di Gesù. Anche la scena in cui lo Spirito discende in forma di colomba non è narrata direttamente: è solo riferita attraverso le parole di Giovanni Battista. Tutto ciò tende a indicare che non è il battesimo compiuto al Giordano a produrre l’autentico perdono dei peccati.

Da sempre ci si è interrogati sul significato da attribuire al verbo reso in italiano con togliere. Il greco airo è dotato di una pluralità di sensi. Esso può voler dire «sollevare», «assumere», «prendere su di sé», «togliere» e «portar via». Nel quarto Vangelo questi ultimi due significati s’incrociano fino quasi a congiungersi. In esso si parla di Gesù come pastore che dà la vita per le proprie pecore, avendo il potere di darla e di riprenderla: «Nessuno me la toglie (airo), ma io la do da me stesso» (Gv 10,18). L’Agnello toglie i peccati del mondo attraverso la spontaneità della propria offerta. Il pastore non solo – come fin dall’inizio del suo pontificato ama ripetere Francesco – fa proprio l’odore delle pecore, ma va oltre, diventando in proprio figlio del gregge (identificazione, quest’ultima, preclusa a ogni vescovo). L’immagine antica del «buon pastore» che porta sulle spalle l’agnellino si fa più radicale. Colui che guida il gregge si trasforma in agnello; lo fa non perché la morte vinca, ma perché ci sia la vita: «Il ladro non viene se non per rubare, uccidere e distruggere; io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza» (Gv 10,10).

Quanto è detto all’inizio del quarto Vangelo trova corrispondenza alla fine, nel ripetuto rimando all’agnello pasquale sottinteso al racconto della Passione. Gesù muore alla Parasceve, alla stessa ora in cui nel tempio si stava immolando l’agnello; dopo la sua morte vi è un richiamo esplicito a questa identificazione, infatti ciò è avvenuto perché in lui si compisse la Scrittura, secondo la quale non gli deve essere spezzato alcun osso (cf. Gv 19,36; Es 12,46). Tutto allora fu compiuto (cf. Gv 19,30).

È anche vero però che nel Vangelo e nella liturgia si usa il presente «che toglie» e non già il passato remoto «tolse». Come ha osservato Origene, ciò significa che l’Agnello è «colui che continua a togliere». Tutto è già avvenuto in lui, ma proprio grazie a quell’atto il perdono dei peccati può continuare a compiersi in noi. Per questo motivo ripetiamo quelle parole a ogni messa prima di accostarci al suo corpo e al suo sangue.

C’è di più. Il presente domina la terza e ultima invocazione che la liturgia aggiunge al Vangelo: «Dona a noi la pace». Qui la forza degli eventi ci impedisce di affermare che tutto è compiuto e, giorno dopo, ci impone di continuare a invocare.

 

 

Commenti

  • 19/01/2017 mariagraziamazzucco@gmail.com

    Ho sempre cercato di dare un significato al verbo "toglie" che sottraesse l'invocazione al logorio dell'uso. Grazie a Pietro Stefani dell'aiuto. La ripeterò invocando l'Agnello che "assume su di sé" e perciò "toglie, porta via" i peccati del mondo. Altrimenti, chi tra gli uomini potrebbe farlo? Nessun perdono umano potrebbe "togliere" certi orrori della storia, recente e contemporanea.

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