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Destinazione paradiso: i beni e la comunione

Moralia | Una collaborazione dell'Associazione teologica italiana per lo studio della morale (ATISM) con Il Regno.

 

«Dio ha destinato la terra e tutto quello che essa contiene all'uso di tutti gli uomini e di tutti i popoli, e pertanto i beni creati devono equamente essere partecipati a tutti, secondo la regola della giustizia, inseparabile dalla carità» (GS, n. 69). Da questo stralcio di Gaudium et spes possiamo trarre due postulati: uno teologico e uno etico. Quello teologico, non soltanto conferma la fede nel Dio Creatore, ma anche quella in Dio che affida all’uomo la terra. Quello etico richiama la responsabilità umana e la connota di giustizia e verità, affinché nessuno sia escluso o privilegiato.

La dottrina sociale della Chiesa, fin dalla Rerum novarum (7), riconosce il diritto alla proprietà privata: nondimeno, dell’uso dei beni dovremo «rendere rigorosissimo conto» (RN 18). Nel contempo, infatti, ne definisce i limiti. In una recente definizione (EG 189), così vengono indicate le condizioni: «Il possesso privato dei beni si giustifica per custodirli e accrescerli in modo che servano meglio al bene comune, per cui la solidarietà si deve vivere come la decisione di restituire al povero quello che gli corrisponde”.

Il principio della destinazione universale dei beni

Possiamo quindi affermare che la destinazione universale dei beni è un diritto naturale, non solo (e soltanto secondariamente) un diritto positivo. Ed è altresì prioritario rispetto al diritto di proprietà privata, di libero commercio o ad altri diritti.  

«Destinazione e uso universale dei beni» non significa, tuttavia, che tutto sia a disposizione di ciascuno e di tutti e che tutti e ciascuno necessitino degli stessi beni. Sono quindi necessari discernimento personale, ma anche accordi locali, nazionali e internazionali: si intrecciano le dinamiche sociali e personali – che sempre si condizionano reciprocamente – di ogni nostro singolo uso dei beni.

In queste poche righe voglio soffermarmi solamente su quel «devono essere partecipati a tutti», ovvero sulla partecipazione, che ritengo possa essere affrontata da due angolature: “quantitativa” e “qualitativa”.

Una partecipazione “quantitativa”

La partecipazione “quantitativa” implica la distribuzione dei beni, la condivisione in particolare di quei beni primari che costituiscono le condizioni essenziali per la sopravvivenza. È il contrario della disuguaglianza, dell’esclusione, della emarginazione, dello sfruttamento, della schiavitù…

È evidente come, in questo ambito, sia principalmente chiamata in causa l’economia. Ma anche il nostro stile di vita, quotidiano e “piccolo”, è coinvolto. Si staglia, ad esempio, il tema della «cultura dello scarto» così fortemente richiamato da papa Francesco.

Una partecipazione “qualitativa”

La partecipazione “qualitativa”, invece, è quel criterio di gestione che esclude forme più o meno occulte di paternalismo, di competizione, di concentrazione del potere, di clientelismo, della delega… implica rottura di monopoli, barriere. La partecipazione “qualitativa” è l’antitesi di quell’occulto preconcetto che porta spesso a interpretare i beni comuni o come beni personali o, al contrario, come beni di nessuno. A questo livello sono maggiormente interpellate la politica e la cultura.

Tuttavia, anche in questo caso, la nostra responsabilità è chiamata a lasciarsi coinvolgere e a dare il suo contributo attivo al fine di una destinazione che sia condivisa non solo dal punto di vista materiale ma, soprattutto, di stile. Una comunione vissuta dall’interno e non solo dall’esterno: una comunione che richiami integralmente il progetto di Dio e la nostra “destinazione paradiso”.

Gaber cantava: «libertà è partecipazione». E se fosse il contrario? Se fosse la partecipazione, inscindibilmente “quantitativa” e “qualitativa” (e responsabilmente giusta e caritatevole) ad essere il cammino di libertà con “destinazione paradiso” di tutti gli uomini e di tutti i popoli?

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