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Domenica 16 luglio | Il seme dell’annuncio

Is 55,10-11; Sal 64 (65); Rm 8,18-23; Mt 13,1-23

         Da un certo punto in poi nei Vangeli, per parlare del Regno, si fa ricorso in modo privilegiato alle parabole. Il genere letterario parabolico fa parte dell’antico bagaglio culturale ebraico. Gesù utilizzò quindi una forma d’espressione consolidata. L’originalità sta nel significato attribuito a essa da Matteo. In questo contesto assumono particolare rilievo le parabole dedicate al Regno contenute nel 13° capitolo del primo Vangelo. Sono quelle della zizzania, del granello di senape, del lievito, del tesoro e della perla e infine della rete, tutte introdotte da una prima e più dettagliata parabola, quella del seminatore (cf. Mt 13,1-23). Quest’ultima, a differenza delle successive, non è contraddistinta dalla clausola: «Il Regno dei cieli è simile...». La ragione sta nel fatto che essa funge da premessa generale, infatti riguarda non il Regno in se stesso, ma la parola di Gesù che lo ha annunciato.

         Il ricorso alle parabole entra in scena dopo le difficoltà incontrate dall’annuncio del Regno. Davanti alle parabole, le folle – dice il testo – non comprendono. Sulla riva del mare di Galilea a esse non è rivolto alcun insegnamento. Quando il Vangelo del Regno era proclamato con parole, insegnamenti e guarigioni, non si pensava a un seme in larga misura disperso; quanto faceva difetto erano piuttosto gli annunciatori (la messe era tanta e gli operai pochi, cf. Mt 9,37). Per questo motivo, attraverso il cosiddetto «discorso missionario», Gesù inviò i propri discepoli a predicare (cf. Mt 10); tuttavia già in quel capitolo si ventilava l’ipotesi che l’annuncio non fosse accolto. Là era una pura eventualità, mentre ora si afferma apertamente che il seme si disperde sulla strada, sul terreno sassoso o è soffocato dai rovi.

         Alla domanda rivoltagli dai discepoli perché parli in parabole, Gesù risponde impiegando in maniera dura e nuova alcune parole rivolte dal Signore a Isaia:  

      «Udrete, sì, ma non comprenderete, guarderete, sì, ma non vedrete. Perché il cuore di questo popolo è diventato insensibile, sono diventati duri di orecchi e hanno chiuso gli occhi, perché non vedano con gli occhi, non ascoltino con gli orecchi e non comprendano con il cuore e non si convertano e io li guarisca!» (Mt 13,14-15; Is 6,9-10).

         Il ricorso alle parabole non è un espediente pedagogico, è la rivelazione del mistero (mystērion) del Regno dei cieli che è dato solo ai discepoli di conoscere (cf. Mt 13,11). Qual è? Non si tratta di insegnamenti riservati, esoterici, non si è di fronte all’affermazione della presenza di un gruppo elitario che conosce quanto altri ignorano. Il mistero è racchiuso nella fede, che continua a credere nella venuta del Regno anche quando la parola che lo annuncia è rifiutata dalla maggior parte degli ascoltatori. Il mistero è che l’accoglimento dei pochi dà la possibilità al granello di senape di diventare un albero (cf. Mt 13,31-32).

         Ciò non equivale a pensare ingenuamente che le cose vadano comunque bene, il rifiuto dei più ha un peso effettivo e a sperimentarlo sarà in prima persona Gesù. Le parabole fanno infatti parte integrale di un cammino iniziatosi con l’annuncio della vicinanza del Regno e conclusosi sulla croce. Ma sarà proprio attraverso quella morte che giungerà la salvezza. Giovanni nel suo Vangelo avrebbe affermato che «se il chicco di grano caduto a terra non muore rimane solo; se invece muore produce molto frutto» (Gv 12,25). Così in Gesù, così in chi cerca di essere suo discepolo.

 

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