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Domenica 23 luglio | Chi semina il buon seme

Sap 12,13.16-19; Sal 85 (86); Rm 8,26-27; Mt 13,24-43

            Dopo la parabola riservata alla Parola che annuncia il Regno (cf. Mt 13,3-23), iniziano quelle dedicate direttamente al Regno. La prima tra esse è conosciuta in genere con il titolo «Il grano e la zizzania» (anzi di solito, e non solo nei modi di dire, prevale il secondo termine). La qualifica fa partire la comprensione del discorso dal piede sbagliato. Nella prima parabola del c. 13 Matteo prospetta il seminatore in funzione del seme, mentre nella seconda le cose stanno in modo diverso: l’accento, più che su quanto è seminato, batte su chi semina. Per comprenderlo è sufficiente non trascurare l’inizio della parabola: «Il Regno dei cieli è simile a un uomo che ha seminato del buon seme nel campo» (Mt 13,24). È simile a un uomo, non al buon seme o al campo.

            Nelle successive due brevi analogie, incuneate tra la parabola dell’uomo (cf. Mt 13,24-30) e la sua spiegazione (cf. Mt 13,36-43), il centro è occupato rispettivamente dal granello di senape e dal lievito; sono realtà piccole, derivate da quanto le precede (il seme dalla pianta, il lievito dalla pasta fermentata); esse però sono capaci di espandersi, di crescere e di far crescere. Le immagini del granello e del lievito non esprimono alcun contrasto, non attuano alcuna discriminazione. La parabola dell’uomo che getta il buon seme conosce invece il conflitto. Che il protagonista sia proprio l’uomo è confermato dal fatto che quando i servi vogliono strappare la zizzania piantata dal nemico, è il padrone a indicare la via dell’attesa, affinché tutto non sia compromesso. All’uomo si debbono perciò attribuire le due azioni fondamentali della parabola: seminare il buon seme e impedire che sia strappata precocemente la zizzania. Gli atti di mietere, separare, bruciare, riporre nei granai sono invece attribuiti ai mietitori e non già al padrone (cf. Mt 13, 30).

            All’inizio del suo Vangelo, Matteo afferma che Gesù era stato annunciato da Giovanni Battista come colui che «raccoglierà il suo frumento nel granaio, ma brucerà la paglia con un fuoco inestinguibile» (Mt 3,12). Gesù non si attenne a questo modello. L’uomo che semina è Gesù, che predica la buona novella del Regno fattosi vicino, che risana e scaccia i demoni; molti però non accolgono l’annuncio, il nemico non è ancora sconfitto, la zizzania insidia il grano e tuttavia il padrone non giudica e non discrimina. La separazione avverrà solo alla fine e non per opera sua. La parabola attesta che le realtà piccole e minacciate (con tutta quella zizzania il grano raccolto non potrà essere abbondante) non sono travolte dall’ostilità che le circonda, anzi, secondo la logica evocata dal granello di senape e dal lievito, possono anche crescere e moltiplicarsi.

            Dal canto suo la spiegazione della parabola fornita ai discepoli orienta l’interpretazione verso un orizzonte escatologico-apocalittico. Il campo è il mondo e la mietitura sarà l’ultimo giudizio, che dividerà in maniera definitiva la sorte eterna degli eletti da quella dei reprobi. Tuttavia quanto rimane impresso è soprattutto il tempo intermedio, cioè quello storico in cui non è dato strappare la zizzania (pur piantata dal nemico) senza compromettere anche la crescita del grano (piantato dal padrone). L’impossibilità di compiere oggi una separazione tra grano e zizzania rappresenta la condizione propria della nostra umanità. «Il campo è il mondo» (Mt 13,38) termine che qui non significa, come altrove, ciò che si oppone a Dio (cf. per esempio Gv 12,31; 16,11; 17,9), ma che indica «il nostro mondo», vale a dire l’ambiente che tutti ci accomuna: nel corso di tutta la storia il buon cereale e l’erba maligna sono destinati a crescere nello stesso campo.

 

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