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Entrare e uscire

XXII domenica del tempo ordinario

Dt 4,1-2.6-8; Sal 15 (14); Gc 1,17-18.21-22.27; Mc 7,1-8.14-15.21-23

Una scelta compiuta dalla liturgia odierna è di saltare vari versetti all’interno di tutte e tre le letture. Si tratta di opzioni rischiose, specie quando si modificano contesti pressoché indispensabili per conseguire una comprensione non superficiale del brano. Nella parte finale del Vangelo di questa domenica, in sostanza, non sono presenti i versetti che consentono di cogliere la duplice ambientazione tra quanto detto alla folla e quanto spiegato ai discepoli. La doppia scena (presente anche altrove, cf. per es. Mc 4,1-10) attesta, nella sua seconda parte, il senso attribuito dall’evangelista alle parole di Gesù.

La costruzione retorica dell’ultima sezione è giocata sull’«entrare» e sull’«uscire». Dapprima rivolto a tutti, Gesù afferma che «non c’è nulla al di fuori dell’uomo che entrando in lui possa renderlo impuro. Ma sono le cose che escono dall’uomo a renderlo impuro» (Mc 7,15). Poi, entrato in una casa (un ingresso nel contesto non privo di significato), spiega ai discepoli che quello che viene dal di fuori non rende impuro perché non raggiunge il cuore ma il ventre «e va a finire nella fogna», mentre a rendere impuro l’uomo è ciò che esce dal cuore; a questo punto si propone un lungo elenco di «propositi di male» (Mc 7,18-22).

La difficoltà di comprendere la logica del brano sta nel cogliere una distinzione all’interno dell’accomunante uso del termine «impuro» (o più precisamente del verbo «rendere impuro» koinoo): un conto è impiegarlo in senso rituale, altro adoperarlo nella sua accezione etica. I riti servono a distinguere una comunità religiosa (o anche civile) da un’altra, per loro natura quindi non sono universali; i comportamenti etici invece valgono per tutti. Gli ebrei sono i primi ad affermare che certe norme rituali valgono per loro in quanto non sono in vigore per altri. Non c’è nulla di moralmente riprovevole che un non ebreo si astenga dal lavarsi ritualmente le mani prima di prendere cibo; a lui non è semplicemente richiesto di farlo. Etica e rito si collocano su piani diversi. Non a caso buona parte dei precetti biblici relativi alla purificazione riguardano forme d’impurità contratte in modo inevitabile (e quindi moralmente neutro), come per esempio quelle derivate dalle mestruazioni o dal parto (cf. per es. Lv 12,1-8; 15,1-27; Nm 19,11-22; Lc 2,22) o derivano addirittura da atti eticamente meritori come seppellire un cadavere.

Quando si dichiara che «sono le cose che escono dall’uomo a renderlo impuro» (Mc 7,15) si sta ridefinendo la categoria di impurità trasferendola dal piano rituale a quello etico. Ciò non significa che l’ambito del rito sia da giudicare con i parametri dell’ethos. L’«entrare» e l’«uscire» vanno valutati in questo orizzonte.

L’affermazione stando alla quale tutto ciò che entra nell’uomo dal di fuori non lo rende impuro viene giustificata dal Vangelo con una frase difficile da rendere. Essa afferma che gli alimenti non entrano nel cuore ma nel ventre e di là vanno nella latrina «purificando (katharizon) tutti i cibi» (Mc 7,19). A differenza di quanto avviene nelle traduzioni correnti («così rendeva puri tutti gli alimenti» Mc 7,19 versione CEI 2008, versetto saltato nel Vangelo odierno), il participio greco non ha come soggetto Gesù. L’atto di rendere puri gli alimenti sembra perciò attribuito al processo di digestione che impedisce a essi di essere trattenuti nel corpo.

Non è, comunque, difforme dalla Legge sostenere che l’uomo è reso impuro da ciò che esce dal suo cuore, vale a dire dalle sue intenzioni inique (Mc 7,20-22); si tratta, con ogni evidenza, di piani diversi. L’impurità etica è creata dall’uomo; essa lo tiene lontano da Dio. È reale ma alberga nel cuore e non nelle cose. Ognuno, sia esso ebreo o gentile, è responsabile di questa impurità. Le impurità contratte ritualmente sono purificate dal rito, ciò non vale per quelle che attengono al cuore. Per essere risanate esse hanno bisogno di vie sulle quali si dispiega l’azione di Dio: «Beati i puri di cuore perché vedranno Dio» (Mt 5,8).

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