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Equità fiscale: fa rima con responsabilità

Il tema dell’equità fiscale è uno dei temi «caldi» del momento in Italia, vista l’attenzione suscitata dalle misure previste dalla manovra 2019 su cui il governo ha recentemente raggiunto l’intesa.

In questa sede, però, non interessa tanto entrare nel merito politico della questione, quanto piuttosto riflettere brevemente sul suo significato etico e sulle sue implicazioni morali, pubbliche e private. Il principio della giustizia contributiva, infatti, è un principio che dovrebbe godere della massima attenzione in tutte le moderne democrazie, laddove proprio dal sistema fiscale dipende la capacità di uno stato di tutelare esigenze ormai universalmente giudicate «primarie» per ogni cittadino, come la sanità e l’educazione.

E proprio nella contribuzione fiscale individuale il cittadino trova – come sottolinea Manzone (2016) – un rafforzamento del suo senso di appartenenza allo stato e, aggiungerei, anche una via privilegiata per partecipare alla costruzione materiale del bene comune. In questo senso, l’equità fiscale diventa cartina di tornasole per giudicare la legittimità dell’assetto politico-economico-sociale di un Paese.

Diritti, doveri e … virtù

Ora è indubbio che, se la crescente pressione fiscale non può diventare una spada di Damocle che pende sull’attività imprenditoriale, rallentando la produzione di reddito e gli investimenti, per poter garantire quella legittimità è doveroso anche guardare a misure economiche concrete che garantiscano l’uguaglianza e promuovano la solidarietà, affinché il prelievo fiscale mantenga le due essenziali caratteristiche di proporzionalità e progressività, e gli oneri imposti siano effettivamente sostenibili, secondo le reali capacità contributive di ciascuno.

Ecco perché è necessario che si valuti attentamente come introdurre meccanismi che contengano, ad esempio, gli effetti potenzialmente negativi di una flat tax applicata ai redditi di livello inferiore, limitando pure la crescita delle imposte dirette sui consumi che, come sappiamo, hanno una limitata funzione redistributiva.

Ma quello che bisogna sottolineare è che non è possibile parlare di equità fiscale senza parlare di … personale integrità, ovvero dell’adempimento di un dovere morale a pagare le tasse nella misura richiesta, che è elemento essenziale della moderna democrazia, perché la tassazione è comunque una risorsa imprescindibile affinché lo stato moderno possa garantire servizi e ridistribuzione di ricchezza.

E questo resta vero nonostante gli sprechi e gli abusi che possono verificarsi in un sistema imperfetto che va risanato. Solo qualche mese fa, i dati diffusi dalla Commissione europea facevano registrare che proprio l’Italia è prima in Europa nell’evasione IVA, con un VAT gap superiore ai 35 miliardi di euro. Un primato triste e una perdita di civiltà.

Equità e responsabilità

Di qui le profonde implicazioni morali, cui accenna lo stesso Manzone, per la coscienza individuale e pubblica di una società dove manca il rispetto della giustizia contributiva. Se Benedetto XVI (2009) ci ricorda che «la “città dell'uomo” non è promossa solo da rapporti di diritti e di doveri, ma prima ancora da relazioni di gratuità e di misericordia», egli afferma pure che «la giustizia è la prima via della carità», o la sua «misura minima», come rilevava il nuovo santo Paolo VI (1968), perché «non posso “donare” all'altro del mio, senza avergli dato in primo luogo ciò che gli compete secondo giustizia».

Al dovere sociale dello stato moderno di garantire una fiscalità equa non può non affiancarsi, dunque, la responsabilità individuale di obbedire a una politica scelta da chi è stato eletto democraticamente e in maniera legittima, secondo il dettato costituzionale.

Il danno dell’evasione e dell’elusione fiscale, infatti, è un danno morale grave al bene comune, oltre che materiale, perché spezza in primis i legami di reciproca fiducia e solidarietà che alimentano la vita pubblica, affievolendo l’impegno di tutti quei cittadini «ragionevoli» – come li definirebbe Rawls (1971) – che desiderano poter cooperare con gli altri secondo regole condivise, anche a costo di sacrificare il proprio interesse individuale.

Commenti

  • 21/11/2018 uomoplanetario@alice.it

    Il nostro sistema fiscale, soprattutto negli ultimi anni, ha subito interventi specifici caratterizzati da deroghe, contro deroghe, agevolazioni fiscali, modifiche che ne hanno fatto perdere la fisionomia complessiva ed è difficile capire se tutto questo ne abbia aumentato l’efficienza e l’equità tenuto conto anche delle imposte comunali, provinciali e regionali. L’imposta principale che caratterizza il sistema fiscale italiano è l’irpef. E' un’imposta progressiva a scaglioni di reddito che grava quasi esclusivamente su redditi da lavoro - in particolare da lavoro dipendente – e da pensione mentre i redditi di capitale sono tassati con prelievi proporzionali cioè ad aliquota fissa. Gli scaglioni d'imposta sui quali viene calcolata l'irpef sono cinque e l'aliquota massima è del 43% sui redditi superiori ai 75.000 euro.

    Non si capisce perché gli scaglioni d'imposta debbano fermarsi a quella quota di reddito perché non c'è ragione che chi percepisce un reddito di un milione di euro debba continuare a pagare sulla parte eccedente i 75.000 euro solo il 43% tenuto conto che la distribuzione dei redditi è peggiorata nel nostro paese come in molti altri paesi. Si è infatti divaricata la forbice dei redditi con una distribuzione iniqua degli stessi, perché sono aumentati sia i redditi alti siai redditi bassi e questo è avvenuto anche all'interno dei redditi da lavoro dipendente. Il modo più semplice e più ovvio per ridurre le disuguaglianze è probabilmente quello che porta all'accrescimento della progressività delle aliquote dell'IRPEF che è stata drasticamente ridotta dagli interventi attuati negli ultimi decenni. E' necessario intervenire sulla curva delle aliquote allo scopo di renderla più ripida, riducendo le più basse e aumentando le più alte.

    Secondo alcuni autori (Franzini e Pianta) l'aliquota marginale per i redditi più elevati potrebbe essere portata al 65%. Altri hanno proposto aliquote più elevate, anche ricordando che l'aliquota massima nel Regno Unito prima del governo Thatcher, nel 1979, era dell'83%; e negli Stati Uniti era del 91% fino al 1963 e del 70% fino al 1980.

    Dietro la progressività delle imposte prevista dalla nostra Costituzione ci sono due ragionamenti. Il primo è quello che richiama il principio di capacità contributiva, e cioè che chi è in grado perché ha possibilità di contribuire di più al benessere collettivo, al ben comune è chiamato a farlo in misura superiore. C'è poi un altro elemento molto importante e cioè il riconoscimento che i redditi alti e molto alti - compresi i redditi da lavoro come per esempio gli amministratori di aziende, i dirigenti e gli amministratori pubblici, ecc. – non sono il frutto soltanto del sacrificio, del maggior impegno, del maggior talento delle persone ma molto spesso riflettono situazioni di rendita, di posizione più fortunata che non dipendono solo da abilità individuali.

    Tassando di più questi redditi, con il principio della progressività, in qualche modo la collettività porta via un guadagno che in parte non è frutto dello sforzo individuale e ciò molto importante soprattutto in questo momento storico in cui la forte concentrazione di redditi nella fascia alta della popolazione è anche conseguenza dell'innovazione tecnologica che ha permesso a poche persone d'impossessarsi di redditi molto elevati perché hanno sfruttato nicchie di mercato.

    C'è poi da considerare che la fiscalità generale non finanzia il sistema previdenziale, cioè le pensioni. Nel nostro paese il sistema previdenziale è un sistema contributivo che si finanzia cioè con un'entrata apposita che sono i contributi che vengono prelevati sui redditi da lavoro, dipendente e autonomo, che vanno a finanziare la rendita pensionistica.

    Quando si fa il confronto tra il nostro paese e altri, dobbiamo considerare che la pressione fiscale tiene conto in realtà sia delle imposte, cioè della fiscalità generale, sia dei contributi. In Italia c'è una pressione fiscale alta anche perché ci sono i contributi che pesano molto, e vanno a finanziare le pensioni perché il nostro è un sistema pensionistico pubblico.

    E' scorretto quindi confrontare la pressione fiscale italiana con quella inglese, senza tener conto che in Gran Bretagna la parte contributiva è molto contenuta perché la pensione è quasi interamente costruita attraverso fondi pensione che sono sostanzialmente privati con tutti i rischi che ne conseguono in relazione all'andamento dei mercati assai sensibili ai differenziali dei tassi d'interesse, e cioè lo spread.

    Infine una valutazione deve essere fatta sulle imposte di successione. Sempre Franzini e Pianta, nel loro libro Disuguaglianze edito da Laterza, sostengono che la ricchezza ereditata rappresenta una quota crescente della ricchezza totale ed è distribuita in modo estremamente diseguale. Se nelle nostre società la diseguaglianza è tornata a livelli simili a quelli di un secolo fa, una buona parte di responsabilità va addossata proprio al rilievo crescente assunto dall'eredità.

    C'è quindi un modo semplice per evitare che tutto questo accada, e cioè l'introduzione d'imposte di successione elevate e progressive.

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