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Ermanno Olmi: una scia di bellezza e verità

Non sarà una classificazione di livello elevato, ma sovente le cose semplici dicono l’essenziale: ci sono onesti artigiani della regia cinematografica, ci sono gli autori, capaci d’imprimere alle loro opere uno stile determinato e riconoscibile, e ci sono i maestri.

Questi ultimi fanno tracimare dai loro film ben più di una visione su di un tempo, una stagione storica, una serie di elementi culturali. Quel che chiediamo agli artisti e alle artiste sono elementi di comprensione, chiavi di lettura, alfabeti del dirsi, e del narrare le componenti del pensiero. Per abitare una stagione in piena consapevolezza e portarvi frutti.

Un percorso

Il percorso di Ermanno Olmi verso la cinematografia è stato del tutto particolare. Figlio di un ferroviere (che lo lascia presto orfano, morendo in guerra) e di un’operaia, è proprio per conto dell’azienda in cui lavora la madre che realizza i suoi primi documentari, da autodidatta e senza quindi aver frequentato alcun tipo di scuola di cinematografia.

Approdato al lungometraggio si farà notare fin dai primi lavori per una sensibilità sociale e poetica di grande capacità di lettura umana, dandoci opere magari non conosciutissime al grande pubblico, ma assai apprezzate dalla critica e dagli spettatori più attenti. Negli anni Sessanta e Settanta ci regala film come Il posto (1961), I fidanzati (1963), E venne un uomo (1965, sulla figura di papa Giovanni XXIII), La circostanza (1974).

Ma il passaggio che lo consacra come maestro è il film che gli vale la Palma d’oro al Festival di Cannes nel 1978, L’albero degli zoccoli, a cui seguirà il Leone d’oro al Festival di Venezia per La leggenda del santo bevitore nel 1988.

Le evoluzioni del suo cinema negli anni seguenti saranno a mio parere ancora più significative; Lunga vita alla signora! (1987, realizzato dopo una lunga pausa per una grave malattia), e due capolavori come Il mestiere delle armi (2001) e Cantando dietro i paraventi (2003), fino alle ultime opere, del tutto rilevanti, come Il villaggio di cartone (2011) e Torneranno i prati (2014). Il suo lascito ultimo è rappresentato da un bel documentario dedicato alla figura del card. Carlo Maria Martini, Vedete, sono uno di voi (2017).

Tra religione ed etica

Al di fuori dell’ambito delle scuole italiane, Olmi è stato spesso accostato, per vari elementi (la ritrosia a impiegare attori professionisti, preferendo persone comuni; il calarsi nel lavoro del cinema assumendo spesso le funzioni di operatore e montatore; i molti riferimenti alla cultura contadina, espressione di un paese che sembra dissolto), a Pier Paolo Pasolini, anche per la capacità di osservazione acuta e sovente critica della contemporaneità.

Il loro cinema è stato ricerca di senso e prospettiva, non necessariamente sempre in chiave spirituale, ma certo attraverso quella poetica del guardare che rende ragione ai poveri e ai marginalizzati, contro la cultura borghese che li vorrebbe invisibili perché insignificanti.

Il rapporto con la radice religiosa della loro identità fece scaturire dinamiche espressive solo in apparenza lontane: se Pasolini si pensa al di là della sua formazione cattolica, diventando un radicale contestatore della realtà ecclesiale, Olmi è sempre stato classificato come un regista cattolico.

In realtà il primo ci ha dato film come Il Vangelo secondo Matteo (1964), di assoluto rigore spirituale, e La ricotta (1963), dove dietro una vena corrosiva e apparentemente dissacrante s’identifica facilmente una nostalgia del sacro che consenta domande assolute al di là dei vuoti e dei formalismi delle Chiese.

Da parte sua Olmi, ben lungi dall’essere un artista allineato, non lesina critiche e dissenso nei confronti del cattolicesimo. Basti pensare a un film come Centochiodi (2007), in cui le comunicazioni cristallizzate e quindi morte tra le persone e Dio vengono inchiodate alla loro inutilità e alla responsabilità delle Chiese; la speranza di linguaggi pienamente umani si ricentra invece sulla figura del Cristo, sempre più in là rispetto alle teologie e ai tentativi di schematizzarne l’insegnamento nelle etiche e nei sistemi di potere.

Non di poco conto la sua avversione verso i conflitti armati, che diverranno oggetto di contestazione soprattutto in Il mestiere delle armi, Cantando dietro i paraventi e Torneranno i prati. E ne Il villaggio di cartone la sua riflessione sull’immigrazione diventerà un appello alla Chiesa a convertire energie, risorse e coraggio nell’accoglienza, vista come unica speranza per ridare senso a strutture – non solo materiali – altrimenti destinate a un’assoluta perdita di significato per donne e uomini di oggi.

Salutiamo quindi un maestro e lo facciamo sospesi tra dolore e gratitudine. Lasciamo che la seconda prevalga sul primo, perché chi lascia una scia di bellezza e di verità – per quanto mai asserita da padrone, mai ostentata, mai imposta; per questo sofferta e onesta – gira, monta e proietta nel segno di quanto dura, e lievita valore nel tempo.

«La mia formazione in una vera azienda è stata la base del mio rapporto con il cinema, perché il cinema è anche tutto questo: il lavoro, la famiglia, è un atto religioso dell’uomo, l’affermazione della sua fiducia nella vita».”

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