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Gli uni gli altri

V domenica di Pasqua

At 14,21-27; Sal 145 (144); Ap 21,1-5; Gv 13,31-35

Il 13° capitolo di Giovanni inizia con la lavanda dei piedi (cf. 13,1-20). Gesù si china e compie un gesto da schiavo nei confronti di tutti i suoi discepoli, Giuda compreso (cf. Gv 13,2). Dopo che tutti i piedi furono lavati e asciugati Gesù, rivolgendosi ai discepoli, afferma che se lui, il Maestro e il Signore, ha lavato i piedi a loro, anch’essi devono farlo a propria volta: «Vi ho dato un esempio, infatti, perché anche voi facciate come ho fatto a voi» (Gv 13,15). L’esempio è per tutti, Giuda compreso.

La condizione di Maestro e Signore di Gesù si manifesta nel fatto che egli lava i piedi e ordina ai suoi di farlo tra loro. Gesù non invita nessuno a lavare i piedi a lui. Maria, però, in precedenza glieli aveva unti e asciugati con i propri capelli (cf. Gv 12,3); fu un gesto suo, non l’esecuzione di un comandamento. Per questo motivo sarà ricordata per sempre (cf. Gv 12,3).

Alla scena della lavanda dei piedi segue l’annuncio del tradimento di Giuda. Il discepolo prese il boccone, Satana entrò in lui ed egli uscì nella notte (cf. Gv 13,27-30). Il congedo di Gesù dai suoi ha luogo in assenza del traditore. Esso è però corredato da un altro annuncio: quello del rinnegamento di Pietro. Le parole di Gesù commentano la volontà di Pietro di dare la vita per il suo Maestro (Gv 13,37). Il rinnegamento è la riproposizione interna del tradimento. Per questo fu di Pietro, per questo nella vita quotidiana è anche nostro quando non mettiamo in pratica il comandamento nuovo che ci chiede non di dare la vita per Gesù, ma di amarci gli uni gli altri come lui ha amato noi (Gv 13,34-35).

Più avanti, sempre all’interno del discorso di addio, Gesù ripropone il comandamento corredandolo di parole che paiono alludere alla dichiarazione di Pietro di essere capace di dare la vita per il proprio Maestro: «Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi. Nessuno ha un amore più grande di questo dare la vita per i propri amici. Voi siete miei amici, se fate ciò che vi ho comandato» (Gv 15,12-13). Vi è un esempio da imitare, ma anche un’asimmetria da custodire.

Pietro non comprese la connessione di questi due fattori, perciò senza saperlo imboccò la via del rinnegamento. Gesù non comanda di essere amato, né chiede di dare la vita per lui. Ordina ai discepoli di amarsi gli uni gli altri, rafforza però il discorso affermando che ciò va compiuto fino a giungere a dare la vita. La reciprocità dell’amicizia attesta che non è necessario guardare (come aveva dichiarato Pietro nei confronti di Gesù) alla disponibilità di morire. Il dare la vita per gli amici comporta prima di tutto vivere nell’amore reciproco giorno dopo giorno. L’atto di morire per gli altri è grande ma, per definizione, non reciproco. Gesù muore per noi, ma noi non moriamo per lui, neppure quando qualcuno giunge a dare la vita in suo nome. L’espressione «gli uni gli altri» rappresenta una specie di messa in guardia nei confronti della volontà di essere come Gesù. Ai discepoli è comandato di amarsi reciprocamente come Gesù li ha amati, è chiesto loro di farlo reciprocamente, cioè nella vita e non già nella morte.

«Gli uni gli altri» è il sigillo della reciprocità. Forse per questo è detto due volte dopo che Giuda è già uscito nella notte. L’amore si indirizza all’altro discepolo. Per questo è bilaterale e connotato con la parola «amici». È un comandamento che non annulla quello antico che ordina di amare il prossimo e il forestiero come noi stessi (cf. Lv 19,18.34). Nelle nostre vite non sempre c’è reciprocità. Il Discorso della montagna ben lo sa quando comanda di amare i propri nemici (cf. Mt 5,44). Senza la permanenza del precetto antico, il comando nuovo rischierebbe di essere chiuso in una specie di recinto escludente. In definitiva non sarebbe davvero conforme all’amore di Gesù, che vuole amici capaci di guardare al di là della propria cerchia.

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