Il mistero del bambino
Il racconto nel suo complesso ci pone molte domande senza soddisfarle, come se fossimo richiamati a una costante ricerca di senso in ciò che è essenziale
Natale di Gesù
Notte | Is 9,1-6; Sal 96 (95); Tt 2,11-14; Lc 2,1-14
A ben guardare i testi che il lezionario presenta per le quattro celebrazioni del 25 dicembre, si vede come essi si muovano tra cronaca teologicamente raccontata e mistero. Perché è vero che si parla di Betlemme, notte, angeli, pastori, di chi c’era e, indirettamente, di chi non c’era, di chi accoglie e di chi non accoglie, ma tutto questo è inserito in un quadro più vasto, che va dalla genealogia di Gesù secondo Matteo al prologo secondo Giovanni, passando per alcune notazioni sull’identità del Bambino.
I nomi, i titoli, i riferimenti alle antiche profezie confermati dalla tradizione eucologica presentano questo Bambino come fosse già un adulto dal duro e difficile destino.
Non c’è posto, negli Evangeli, per pastorelli e ninne-nanne – sia pur detto nel rispetto della devozione popolare -.
Egli è invece il segno della grazia salvifica che chiama a rinnegare la mondanità e a un «vivere alternativo» – come forse l’avrebbe denominato Thomas Merton – in un costante clima di attesa escatologica (Tt 2,11-13). Colui che nasce ci chiama semplicemente alla vita.
Luca, che pur si dichiara preciso e acribico nelle sue ricerche (cf. At 1,1-2) ci lascia, in questo racconto della nascita, con non pochi dubbi.
Per esempio, non abbiamo alcuna testimonianza di un censimento di tutta l’oikoumene, né si fanno censimenti prescrivendo il ritorno al luogo d’origine, bensì restando in quello in cui si è domiciliati. La nascita poi è raccontata in poche righe, mentre Maria e Giuseppe si trovavano là, senza dire di preciso dove e da quanto, e senza altri particolari. È dato invece molto spazio all’episodio dei pastori.
Se non stupisce la mancanza di dettagli nella descrizione della nascita, dall’altra si deve notare che essa avviene in un katalyma (Lc 2,7), in un ambiente per così dire di fortuna, una stanza suppletiva che poteva servire per i poveri o i pellegrini di passaggio, aggregata a una sinagoga o a una casa privata e che Gesù chiederà anche al momento di celebrare la pasqua (Mc 14,14, Lc 22,11), mentre l’ospite gli darà allora «la stanza al piano superiore», cioè la migliore della casa.
Siamo forse di fronte a una prima indiretta allusione all’esito di tutta la vicenda, ossia alla Pasqua di colui che è appena nato. Il racconto non è quindi documentario, ma si tratta di fatti illustrati da parole allusive a una storia di cui ben si conosce l’epilogo.
Molto spazio invece viene dato all’episodio dei pastori che sono, a loro volta, oggetto di una chiamata che va oltre il semplice fatto di andare a vedere che cosa sia successo. Viene detto loro di «non temere», secondo una formula che conosciamo dal Primo Testamento (v. 10), e del resto angeli luce e canti non sono rivolti al Bambino, che resta nell’oscurità della stanza in cui è nato, ma a loro, che sono considerati ignoranti delle Scritture e che devono vedere e riconoscere il Salvatore attraverso quei segni distintivi da cui sono stati richiamati.
Il tutto accade per loro in un «oggi» per noi atemporale. Anche questo avverbio ha in Luca una certa fortuna.
È un tempo breve e contratto, rispetto alla grande storia, e sempre contemporaneo, nel quale si manifesta la salvezza di Dio in un segno altrettanto piccolo e oscuro come un neonato.
Il racconto nel suo complesso ci pone molte domande senza soddisfarle, come se fossimo richiamati a una costante ricerca di senso in ciò che è essenziale come la vita che nasce e si manifesta.
L’evangelista sa che solo i poveri possono riconoscere e capire chi sia colui che è nato; forse lo possono i reietti, dato che i pastori all’epoca non godevano sempre di buona fama, benché Israele avesse una tradizione di patriarchi profeti e re che erano stati pastori. Forse proprio in questa polarità tra un passato alto e nobile e un presente povero e marginale sta il mistero del Bambino dagli illustri ascendenti e dalla nascita povera; e in questa stessa ambiguità si gioca la fede che vorrebbe segni chiari e non la fatica della «stanza oscura», il katalyma, in cui andare vedere colui che è annunciato dagli angeli.