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La fine dei giorni

I domenica di Avvento

Is 2,1-5; Sal 122 (121); Rm 13,11-14; Mt 24,37-44

All’inizio di questo tempo di Avvento, in attesa della manifestazione del Signore, ci viene proposto il c. 24 di Matteo, che si apre allorché i discepoli chiedono a Gesù: «Quando accadranno queste cose (cioè la distruzione del Tempio appena annunciata) e quale sarà il segno della tua venuta e della fine del mondo?». 

La distruzione del Tempio era nell’aria a causa delle rivolte antiromane ed era pensata in maniera traumatica, come di fatto venne poi vissuta, in quanto perdita senza ritorno e quindi segno della fine del mondo. I discepoli però spostano il significato del segno dal Tempio alla venuta ultima di Cristo, la cui risposta è plurima.


Ai vv. 6ss siamo rimandati alla tradizione profetica: ci saranno guerre e violenze a precedere la fine e saranno come le doglie per la nascita del Messia. Insieme ci saranno anche tribolazioni e persecuzioni che metteranno alla prova il discernimento e la perseveranza dei discepoli. Questo indurrà molti a «raffreddarsi». Dunque, le doglie della fine sono una discriminante della fede, un giudizio indiretto che non può colpire chi persevera «fino alla fine» (v. 13), mentre la fine vera e propria sarà quando l’Evangelo sarà arrivato ovunque (v. 14).
Alla fine del capitolo, al v. 36 Gesù, rispondendo alla domanda iniziale, dice che nessuno conosce quel giorno e quell’ora se non il Padre. Il rischio è dunque di vivere immemori nonostante il travaglio del tempo e della storia. Immemori e insipienti. Come la generazione del tempo di Noè.


Secondo un midrash, Dio aveva avvertito Noè tempestivamente perché potesse predisporre tutto per mettersi in salvo e dire ai suoi contemporanei di fare lo stesso. Questi però, non dandogli credito, avevano continuato a vivere alla giornata.
L’esortazione a vegliare è, in fondo, un’esortazione a una vita di sapienza, in cui l’uomo non si accontenta di cogliere quello che l’esistenza offre nell’immediato, ma, vedendo la propria fragilità, si preoccupa di contare e raccontare i propri giorni per arrivare, secondo quanto dice il salmista (Sal 90,12) alla porta della sapienza stessa. Questa è anche l’arte che fa vivere con realismo il tempo in cui ci si viene a trovare, pensando alla fine, nostra e sua, senza fare come i contemporanei di Noè che non raccolsero i suoi richiami, mentre Dio esercitava la sua pazienza (1Pt 3,30) aspettando che si convertissero.


La vigilanza ha a che fare con l’edificazione di una paziente sapienza di vita. Secondo Isaia (2,1-5), la «fine dei giorni» prevede un grande pellegrinaggio nella luce verso il monte del Tempio del Signore per acquisire un insegnamento e trovare la via del servizio divino. I pellegrini però sono accolti dalla stessa Torah che stanno cercando; essa si fa loro incontro uscendo dalle porte della città, cogliendoli forse di sorpresa come qualunque altro evento di grazia.
Anche di questo pellegrinaggio, tipico del secondo Isaia, non sappiamo il quando. Evocandolo in un’altra occasione e in maniera di gran lunga più ricca e solenne, il testo si conclude in maniera lapidaria: «Il più piccolo diventerà un migliaio, il più insignificante un’immensa nazione; io sono il Signore: a suo tempo, lo farò rapidamente” (Is 60,22).


Il Signore si riserva l’esclusiva della scadenza. Quel «a suo tempo», dice che un tempo ci sarà certamente, ma non è dato sapere quando; forse questa «fine dei giorni» non sarà in un momento definito, dopo che il tempo si è autodivorato, ma ci affianca e ci accompagna e ci chiede, sì, di destarci, ma soprattutto di restare svegli. La fine agisce allo stesso modo del Messia che, già venuto, continua a venire eppure vuole essere atteso e invocato da un popolo vigilante.
In parallelo al dramma delle doglie per il Messia sta la grande promessa della sua gloria, della luce, dei popoli che si radunano e della pace che cancella la cosiddetta «arte della guerra», negazione di ogni sapienza. La gloria di Sion e la gloria del Messia si manifestano insieme secondo la promessa del profeta Zaccaria (9,9-10), ed è quello di cui attendiamo e annunciamo la manifestazione.

Anno liturgico A

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