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La libertà e la festa

XXVIII domenica del tempo ordinario

Is 25,6-10; Sal 23 (22); Fil 4,12-14.19-20; Mt 22,1-14

Si conclude, con quella del banchetto, la serie delle parabole rivolte a capi dei sacerdoti e anziani del popolo (Mt 21,23). Esse riguardano rispettivamente il lavoro e la libera adesione a esso (cf. Mt 21,28-32), il frutto del lavoro e la sua gestione (cf. Mt 21,33-43) e ora la festa (cf. Mt 22,1-14).

Sono tre elementi importanti nella soteriologia veterotestamentaria come il passare dal lavoro vissuto come coatto a quello libero, si veda il caso dei figli che non hanno voglia di lavorare e vivono la richiesta del padre come un peso, dal non godere al godere del frutto del proprio lavoro come nel caso dei fittavoli, alla festa che, in fondo, è il coronamento del lavoro nella gratuità del tempo. Nel libro dell’Esodo tutti questi elementi sono presenti in chiave appunto di storia salvifica.

In queste parabole di Matteo prevale una tendenza allegorizzante, ma è sempre in gioco il tema della libertà: accettare o meno il lavoro, consegnare o meno il suo frutto, accogliere o no l’invito a una festa; e la libertà è il primo segno dell’essere salvati. Tutte e tre sono accomunate dal riferimento escatologico al Regno dei cieli. Nel caso dell’ultima il racconto gioca su un tempo dilatato, per niente verosimile persino rispetto al racconto stesso, accentuando così il carattere escatologico. A questa terza parabola segue un’appendice narrativa, da molti considerata una parabola a sé stante.

Tempo dilatato dunque: il testo non parla di un pasto qualunque, ma di una festa di nozze per un principe ereditario. Sapendo quanto tempo sia necessario per organizzare un pranzo di nozze anche modesto e quanto duravano in media queste feste, possiamo pensare a preparativi lunghi, laboriosi e costosi. Poi il re manda a «chiamare i chiamati» (Mt 22,3): il testo insiste su questo verbo «chiamare» (kaleo) che compare in tutto sei volte, quasi a cadenza regolare: due volte al v. 3 e poi ai vv. 4.8.9.13. L’azione infatti si svolge in momenti diversi.

C’è un primo rifiuto da parte dei «chiamati», poi un sollecito a pranzo pronto, cui segue un secondo rifiuto con una dura reazione verso i servi da parte dei «chiamati». Segue ancora una campagna militare coronata da un triste successo. Infine il re manda i servi (che sempre sono denominati douloi, un termine che confina con «schiavi») a chiamare quella che si potrebbe definire in senso lato «la schiuma della terra», non solo perché marginali, ma anche perché del tutto mescolati «cattivi e buoni» (ponerous kai agathous, v. 10).

Siamo rimandati così a Mt 5,45: chi sostituirà notabili e anziani sarà il popolo del discorso sul monte, quelli che non hanno niente e niente si aspettano. Questi chiamati dell’ultima ora sono comunque tributari di coloro che non hanno accettato di andare alla festa e dovrebbero suscitarne l’invidia e la gelosia. Se i primi invitati «non erano degni» (axioi, v. 8), ciò non dipende da una qualche qualità morale, ma dall’indolenza o dalla mancata prontezza a rispondere alla chiamata del re.

La prospettiva di un banchetto fa muovere con sollecitudine chi non ha niente da perdere e non ha nulla di suo perché sta ai crocicchi delle strade confidando nella carità dei buoni, ma esposto anche a qualunque insidia dei malvagi.

Nonostante il tempo dilatato del racconto, chi è chiamato deve avvertire l’importanza dell’invito e anche la sua unicità: non sa se ci sarà una seconda chiamata.

Infine, per quanto riguarda i vv. 11-13, si accennava al fatto che si tratti di una seconda parabola. Si sa dell’uso di un abito cerimoniale per i banchetti. Ciò che fa pensare a una seconda parabola è il lessico che riguarda i «servi», non più douloi, ma diakonoi (v. 13). Precedentemente nel testo compariva anche un altro elemento che rimanda a un linguaggio cultuale, ed è il verbo «uccidere» del v. 4, thuo, propriamente «sacrificare».

Tra «chiamati», «sacrificio» e «diakonoi/servi» l’impressione è di un racconto a sfondo ecclesiale su chi entri nella chiesa e il relativo giudizio, perché il pranzo del re ha un tempo dilatato, ma si sollecita una risposta e serve almeno un abito buono – noblesse oblige – per il banchetto a corte.

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