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La pietra e la scritta

V domenica di Quaresima

Is 43,16-21; Sal 126 (125); Fil 3,8-14; Gv 8,1-11

La scena del confronto fra Gesù e gli scribi e i farisei a proposito della donna adultera è un masso erratico all’interno del Vangelo di Giovanni (cf. 8,1-11). Lo è dal punto di vista filologico (manca nei manoscritti più antichi), lo è per i suoi contenuti, lo è per il ruolo riservato alle pietre.

La scena non va assunta in senso letterale. Nei modi nei quali è presentata non è in gioco alcuna effettiva questione legale. In quel tempo la competenza sulle condanne a morte era soltanto del tribunale supremo, il sinedrio; inoltre l’esecuzione della sentenza capitale doveva passare al vaglio delle autorità romane. Al riguardo il processo a Gesù non lascia adito a dubbi.

La scena non regge neppure alla luce della Legge scritta. È vero, la Torah prevede la lapidazione dell’adultera, essa però riserva lo stesso trattamento anche all’uomo che ha commesso adulterio con quella donna (cf. Lv 20,10, Dt 22,22-34). Se, come affermato apertis verbis dal Vangelo, la nostra anonima donna è stata scoperta in flagrante adulterio (cf. Gv 8,4), doveva essere portato in giudizio anche l’uomo. Entrambi erano colpevoli, entrambi meritavano la morte. Se Gesù fosse stato effettivamente sfidato sul piano legale, la sua risposta più immediata sarebbe stata questa: «E dov’è l’uomo?».

Nel contesto biblico l’adulterio costituisce la più nota immagine dell’infedeltà del popolo nei confronti del Signore (cf. per esempio Ger 2,20-25; 3,6-8; Ez 16; Os 2,14-16; 3,1). Quanto viene discusso nella scena evangelica non è quindi la forma specifica del peccato legato all’atto di avere rapporti sessuali con una donna sposata ad altri. Il discorso va esteso a tutte le forme di infedeltà commesse nei confronti di Dio (la scena, non occasionalmente, è ambientata nel tempio) e del prossimo.

Del resto questo senso allargato è presente anche nel modo più comune di recepire il detto. La forma proverbiale «chi è senza peccato scagli la prima pietra» non è riservata solo all’adulterio. Essa piuttosto tende a esprimere quanto i Vangeli affermano, comandando di non giudicare per non essere giudicati e di guardare innanzitutto alla trave infissa nel proprio occhio (cf. Mt 7,1; Lc 6,41).

Questo modo di intendere il detto è giusto. Nessuno se guarda in profondità a sé stesso è nelle condizioni di giudicare gli altri. Non si tratta però di proporre un’indulgenza generalizzata. Al contrario il non essere nelle condizioni di scagliare la pietra significa assumere in prima persona la responsabilità del proprio peccato. Questo è in effetti il senso anche delle parole che concludono l’episodio. Gesù da un lato non condanna, ma dall’altro ammonisce: «Va’ e da ora in poi non peccare più» (Gv 8,11).

Il detto «chi di voi è senza peccato getti per primo la pietra contro di lei» (Gv 8,7) è circondato a monte e a valle dall’insolito gesto di Gesù di scrivere per terra (Gv 8,6.8). In nessun’altra parte dei Vangeli si registra qualcosa di simile. Non si sa cosa abbia scritto e non è il caso neppure di ipotizzarlo. Giovanni non lo svela perché l’attenzione va concentrata sulla superficie su cui si scrive.

La Legge era incisa su pietra. La sua durezza simboleggia una realtà che permane. Quanto è scritto per terra non è destinato a durare; l’acqua, il vento, il calpestio renderanno ben presto irriconoscibili quei tratti. Il gesto di Gesù indica la revoca della condanna. Il peccato è cancellato. La terra subentra alla pietra. L’essere umano è Adam, da adamah, terra, suolo. «Perché egli sa bene di che siamo plasmati, ricorda che noi siamo polvere» dice il Salmista (Sal 103,14).

Il perdono e la misericordia sono richiesti dalla stessa condizione umana. Non si tratta però di indulgenza generica e generalizzata. Gesù, dopo aver steso la labile scritta destinata a venir cancellata, esprime un forte e duraturo appello alla responsabilità: «Va’ e da ora in poi non peccare più» (Gv 8,11).

 

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