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L’opera che dà testimonianza

IV domenica di Pasqua

At 13,14.43-52; Sal 100 (99); Ap 7,9.14-17; Gv 10,27-30

Il Vangelo di questa domenica è molto breve. Si chiude con un detto privato del suo contesto. Allargare un poco lo sguardo non è allora fuori luogo. Il brano proviene da una scena ambientata nel corso della festa che ricorda la Dedicazione del tempio di Gerusalemme dopo la profanazione a cui fu soggetto a opera di Antioco IV Epifane (cf. 1Mac 4,52; 2Mac 10,5).

Mentre Gesù cammina sotto il portico di Salomone, i Giudei gli chiedono: «Fino a quando ci terrai nell’incertezza? Se sei il Cristo dillo apertamente» (Gv 10,24). Per rispondere alla domanda Gesù si appella sia alle opere da lui compiute, sia al rapporto da lui instaurato con le proprie pecore (cf. Gv 10,25-28). La conoscenza reciproca tra Padre e Figlio (cf. Gv 10,14-15), la loro unità (cf. Gv 10,30), il loro amore vicendevole (cf. Gv 15,9) si rivelano pienamente solo prolungandosi nel rapporto tra pastore e pecore, vale a dire soltanto nella relazione che lega Gesù ai suoi discepoli (cf. Gv 10,14.27; 14,20; 15,9-10; 17,21.26). È così anche sul piano umano: quando vi è un’unione salda tra alcune persone, essa è aperta verso gli altri. Anzi, è dato spingerci anche oltre, è infatti proprio l’orientarsi in quella direzione a diventare una via che rende più solida l’unione. Le persone non si sentono mai tanto unite come quando operano in comune a favore di altri.

L’appello all’operare si comprende in quest’ambito. «Le opere che compio nel nome del Padre mio, queste danno testimonianza di me» (Gv 10,25). A essere rivelatore del proprio sé più profondo è l’agire in nome di altri. Chi vuole affermare se stesso si perde, chi non è incentrato su di sé si ritrova (cf. Mt 16,25). Gesù aveva detto in un’altra occasione: «Il mio cibo è fare la volontà di chi mi ha mandato e compiere la sua opera» (Gv 4,34). Allorché si agisce attuando il volere di colui a cui si sta obbedendo, è come assimilarne in sé stessi la presenza. Nel caso più alto questa assimilazione si fa unione piena: «Io e il Padre siamo una cosa sola» (Gv 10,30).

Sulle prime ci si chiede se non sarebbe stato più consono invertire i termini e affermare: «Il Padre e io siamo una cosa sola». Guardando con maggiore attenzione si scopre che giustamente non è così. L’erompere della prima persona singolare qui non rappresenta un tentativo di sollevarsi verso l’alto; al contrario, siamo di nuovo di fronte a un modo per affermare la logica dell’operare grazie alla quale si rivela l’unità. L’io è espressione della scelta di agire in obbedienza alla volontà del Padre. A rendere la testimonianza più autentica sono sempre le opere che si compiono in risposta a un comando, e non già quelle nate dal proprio cuore.

Allo scandalo dei Giudei di fronte a un’affermazione che ai loro orecchi tende a uguagliare l’uomo a Dio (cf. Gv 10,31-33), Gesù risponde appellandosi alla parola biblica: «Non è forse scritto nella vostra Legge: “Io ho detto: voi siete dèi” (Sal 82,6)? Ora, se essa ha chiamato dèi coloro a cui fu rivolta la parola di Dio – e la Scrittura non può essere annullata – a colui che il Padre ha consacrato e mandato nel mondo voi dite: “Tu bestemmi”, perché ha detto: “Sono Figlio di Dio”?» (Gv 10,36).

Si è davanti a un tipico argomentare di stile rabbinico (ragionamento a minori ad maius) consono alla mentalità degli aspri, anzi violenti (volevano lapidarlo, Gv 10,31), interlocutori di Gesù. Il contenuto della risposta è riassumibile in questi termini: se il semplice ascolto della parola rende simili a Dio («dèi»), quanto più ciò è da dirsi per il Figlio di Dio venuto nel mondo a compiere la volontà del Padre. Ma infine in che consiste questa volontà? A dircelo, in prima istanza, è l’inizio stesso del quarto Vangelo: al principio di tutto vi è la venuta stessa nel mondo della Parola: «E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi: e noi contemplammo la sua gloria, gloria come del Figlio unigenito che viene dal Padre» (Gv 1,14). L’essere una cosa sola del Padre e del Figlio si manifesta già in questa venuta.

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