b
Blog

Nella regione di Cesarea di Filippo...

Domenica XXI del tempo ordinario

Is 22,19-23; Sal 137 (138); Rm 11,33-36; Mt 16,13-20

 

Nei racconti evangelici i luoghi svolgono spesso un ruolo decisivo per comprendere il messaggio. A volte è agevole capirlo, in altre occasioni è più arduo. Nel Vangelo di domenica scorsa si afferrava subito perché l’incontro con la cananea (che Marco con più esattezza qualifica siro-fenicia, Mc 7,26) fosse avvenuto nel territorio di Tiro e Sidone (Mt 14,21-28): se così si potesse dire, Gesù incontrò la straniera a casa sua. Ma perché, dopo aver fatto transitare Gesù dalle due rive del «mar di Galilea», Matteo colloca «la professione di fede» di Pietro «nella regione di Cesarea di Filippo» (Mt 16,13)? Di fronte al peso enorme goduto nella storia cristiana da questo brano, la domanda può suonare oziosa. In realtà, il riferimento al luogo geografico può rivelarsi occasione per scoprire significati inattesi.

Ogni tanto la traccia per giungere a una scoperta arriva guardando in direzione opposta. Una delle più celebri rappresentazioni pittoriche della consegna delle chiavi a Pietro la si deve al Perugino. L’affresco, che si trova nella Cappella Sistina, non recepisce in nulla l’ambientazione evangelica. La scena ha come sfondo una grande piazza chiusa dalla presenza di tre manufatti: al centro un edificio sacro allusivo al tempio di Gerusalemme, ai lati due archi trionfali imitati su quello di Costantino. Gerusalemme e Roma, potere spirituale e potere temporale sono i richiami più immediati di un’opera in cui la «consegna delle chiavi» occupa a tal punto il centro da far dimenticare la precedente «professione di fede» dalla quale in effetti dipende.

Gesù non si trova a Cesarea di Filippo (oggi Baniyas). La scena non ha un’ubicazione urbana. Siamo solo in quella regione, vale a dire nella zona in cui si situa una delle sorgenti del Giordano. Non c’è alcuna certezza sul fatto che Matteo abbia attribuito una funzione decisiva a quell’ambientazione, ma non ci sono neppure motivi probanti per smentirlo. È concesso perciò seguire questa pista. All’inizio della vita pubblica di Gesù, Matteo (al pari degli altri evangelisti) colloca il battesimo al Giordano. Uscito dalle acque Gesù vide scendere su di lui lo Spirito di Dio «come una colomba», «ed ecco una voce dal cielo che diceva: “Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento”» (Mt 3,16-17). La grandiosità della scena avrebbe dovuto rendere tutto manifesto fin dal principio. Non fu così. Per riconoscere Gesù come Figlio di Dio non ci sono evidenze, occorre la fede.

Alle sorgenti del Giordano, Gesù chiede ai discepoli che cosa la gente dice di lui. Nessuna risposta corrisponde alla manifestazione avvenuta al battesimo. A riproporla sarà solo la voce di Pietro: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente» (Mt 16,16). Gesù, proprio in quell’occasione, chiama Simone con il patronimico («figlio di Giona», l’unica volta in tutti i vangeli) e lo fa per indicare, per contrasto, che le parole pronunciate dal discepolo gli sono state rivelate non «dalla carne e dal sangue» ma dal «Padre mio che è nei cieli» (Mt 16,17). Quanto introduce alla fede non è mai la paternità terrena. Quello che trasforma Simone in Pietro non sono le chiavi: è la fede. Tutto dipende dall’ascolto interiore della voce manifestatasi al Giordano. Si è nella fede non già nel possesso. Pietro, che era ancora lungi dal comprendere la via della croce (Mt 16,2-23), avrà bisogno, di lì a poco, di udire di nuovo quelle parole sul monte della Trasfigurazione: «Questi è il Figlio mio, l’amato, in cui ho posto il mio compiacimento: Ascoltatelo» (Mt 17,5). La professione di fede che fa diventare Simone, il figlio di Giona, Pietro avvenne alle sorgenti del Giordano, e non in una piazza in cui danno concordemente mostra di sé il potere spirituale e quello temporale.

Lascia un commento

{{resultMessage}}