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Opere belle

V domenica del tempo ordinario

Is 58,7-10; Sal 112 (111); 1Cor 2,1-5; Mt 5,13-16

Con il discorso della montagna Matteo rivolge la sua attenzione, e richiama la nostra, su Gesù come il maestro, al modo di Moše rabbenu, «Mosè, nostro maestro», secondo la formula tradizionale.

Ora un autentico maestro non si limita a trasmettere nozioni o un sapere intellettuale. Soprattutto nel mondo antico, l’insegnamento era comunanza di vita con gli allievi e, dal punto di vista peculiare del maestro, trasmissione di un’esperienza di vita e di un modo di raccontarla, creando una solidarietà tra generazioni. Solidarietà diacronica e sincronica, che proviene da un passato, vive nel presente e costruisce un futuro condivisi. Il compito di un maestro è dunque molto alto: noi riflettiamo spesso sulla responsabilità del medico, da cui dipendono le vite umane, ma un maestro ha in mano il destino di intere generazioni. Trasmette uno stile di vita e di narrazione.

Con le beatitudini Gesù presenta in maniera autorevole una prima sintesi del suo insegnamento e consegna alle folle la sua Torah, che racconta quello che egli vive e indica al tempo stesso una direzione di marcia ai suoi allievi. Non a caso il greco makarios, che traduce l’ebraico ҅ašre – che significa «o le felicità di chi…» –, è tradotto da A. Chouraqui con «en marche!».

Questa è infatti la vera funzione della Torah: indicare la via della vita, e si capisce quindi come per Matteo Gesù stesso sia la Torah per coloro che vanno alla sua scuola.

Il testo di Mt 5,13-16, che ascoltiamo questa domenica, ha il compito di segnare il passaggio tra le Beatitudini e il resto del Discorso del monte, che in qualche modo le esemplifica radicalizzando la Torah di Mosè.

Si tratta di due affermazioni sull’identità dei discepoli; sono all’indicativo, quindi fortemente assertive: non un dover essere, ma una realtà di fatto. Esse li identificano come il sale della terra e la luce del mondo. La presenza degli articoli rende ancora più forte l’identificazione.

Sappiamo che il sale è necessario alla vita (cf. Sir 39,26), ma che tutto dipende dal dosaggio. Nel caso nostro ci troviamo di fronte a un certo gioco di parole, perché il sale potrebbe diventare «sciocco», ossia insipido, come si sente dire in Toscana: il verbo moraino è connesso alla radice di moria «follia, dissennatezza». Dunque si tratta del sale della sapienza, che perdendo sé stesso può sconvolgere un mondo. Che il sale possa perdere sapore pare improbabile, al massimo potrebbe essere o diventare impuro, il che lo renderebbe inutilizzabile a scopo cultuale, dato che veniva usato nei sacrifici per accelerare la combustione. In ogni caso se davvero il sale diventasse inutilizzabile, non resterebbe che gettarlo via e lasciarlo calpestare, perché neppure serve alla terra.

Ugualmente la funzione della luce è illuminare, e una lampada va collocata in alto per essere efficace. Al tempo di Gesù una casa era normalmente di una sola stanza (non si parla qui delle case del quartiere sacerdotale, costruite sul modello di quelle romane i cui resti sono ancora visibili a Gerusalemme), e riceveva luce dalla porta durante il giorno e da una lucerna durante la notte. Benché modesta, la lucerna poteva veramente illuminare tutta la casa. Ugualmente la luce è metafora della Torah, si veda in particolare Proverbi 6,23: «Il precetto è infatti una lampada, l’insegnamento (Torah) una luce, le correzioni e la disciplina sono la via della vita».

Infine il versetto conclusivo (v, 16) è particolarmente interessante. Matteo usa generalmente i due aggettivi kalos, «bello», e agathos, «buono» come sinonimi, ma il fatto che qui parli di kala erga, «opere belle» pare interessante.

Nelle opere «belle» c’è una sfumatura d’irradiazione e di attrattività, talché chi le vede potrebbe essere invogliato a compierle a sua volta. Ma c’è anche una sfumatura di gratuità: esse non vengono compiute per uno scopo utilitaristico, neppure morale, ma per semplice amore della stessa Torah e del Padre «che è nei cieli».

Come in generale la Scrittura, Matteo è alieno da moralismi: occorre imparare la sapienza di Gesù, Torah vivente, per amore di essa in quanto tale e per rendere gloria al Padre.

Se poi grazie alle opere belle il discepolo esercita un’attrazione su coloro che ha vicino, diventa egli stesso luce e Torah per gli uomini.

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