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Parlava del tempio del suo corpo

III domenica di Quaresima

Es 20,1-17; Sal 19 (18); 1Cor 1,22-23; Gv 2,13-25

Il racconto e la simbologia del quarto Vangelo differiscono profondamente da quelle dei sinottici. Basti pensare alla scena del tempio – cuore del Vangelo di questa domenica – Matteo (21,12-13), Marco (11, 15-19) e Luca (19,45-46) la pongono nella fase finale della vita pubblica di Gesù, Giovanni la colloca invece all’inizio (cf. Gv 2,13-21).

L’impianto del quarto Vangelo resta comunque narrativo. Esso riferisce di determinati spostamenti, avvenuti in uno spazio ben preciso e in uno specifico tempo. In particolare in luogo di un ministero breve racchiuso nel giro di un anno come nei sinottici, Giovanni ne prospetta uno più lungo contraddistinto, tra l’altro, da più salite al Tempio di Gerusalemme. Ciò comporta che fin dal principio la Giudea divenga uno degli scenari principali dove opera Gesù.

Proprio in questa regione (e non già «lungo il mare di Galilea», cf. Mt 4,18-22) sono scelti, non a caso, i primi cinque discepoli (cf. Gv 1,35-50). Trasferitosi in Galilea, Gesù opera il suo primo «segno» nell’altrimenti ignota cittadina di Cana (cf. Gv 2,1-12). Dopo di che Gesù scende a Cafarnao dove soggiorna solo pochi giorni (cf. Gv 2,12), prima di spostarsi a Gerusalemme per la festa di Pasqua. In quell’occasione egli scaccia i mercanti dal tempio (cf. Gv 2,13-22). Già nei primi capitoli il centro gravitazionale del quarto Vangelo è, perciò, la Giudea.

Questa impostazione comporta che la Pasqua, oltre a essere la conclusione del Vangelo, rappresenti pure una chiave di lettura che lo accompagna fin dall’inizio. Con tutto ciò anche il quarto Vangelo è costruito come un racconto la cui trama, per il lettore, risulta pienamente riconoscibile solo alla fine. Non per nulla Giovanni si preoccupa di porre in evidenza la non comprensione dei Giudei che, estranei alla logica pasquale, ritengono che Gesù sia una specie di inaffidabile imprenditore edile contraddistinto dalla mirabolante pretesa di far sorgere dalle rovine, in soli tre giorni, una costruzione frutto di decenni di lavoro (cf. Gv 2,20). Tuttavia anche i discepoli, annota il Vangelo, avrebbero compreso il significato del detto pronunciato da Gesù, relativo al tempio del suo corpo, soltanto dopo la risurrezione (cf. Gv 2,21).

Nel quarto Vangelo è presente una tensione, che sulle prime può apparire persino non ben ricomposta: da un lato c’è una concentrazione, dall’altro una dilatazione. Il tempio è il corpo di Gesù, una realtà per definizione fatta di carne (cf. Gv 1,14) e localizzata in un determinato spazio e in uno specifico tempo; c’è però anche l’apertura dello Spirito, che è vento che soffia dove vuole e non riconosce più la presenza di luoghi santi privilegiati (cf. Gv 4,21-23).

In realtà è solo perché la Parola, fattasi carne, ha donato e ripreso la propria vita (cf. Gv 10,17-18) che può dischiudersi la possibilità di adorare Dio in Spirito e verità. È un paradosso della fede, così come presentato da Giovanni, che lo Spirito abbia bisogno della carne e che la verità priva di confini necessiti del tempio del corpo. La Pasqua non è null’altro che questo: per risorgere bisogna morire («distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere», Gv 2,19), ma ciò può avvenire solo perché il Figlio venuto nel mondo e nella carne ha detto: «Io sono la risurrezione e la vita» (Gv 11,25).

Nel quarto Vangelo la formulazione in prima persona singolare vale innanzitutto per chi l’ha pronunciata: «Io do la mia vita per riprenderla di nuovo (...) Ho il potere di darla e il potere di riprenderla» (Gv 10,17-18). Il fatto che Gesù abbia dichiarato il proprio corpo tempio non è un evento che riguarda lui solo, al contrario esso tocca la vita di ogni credente. La verità dell’Evangelo sta nell’integrazione tra corpo e Spirito. Parlare del corpo come un tempio è vero tanto per Gesù quanto per tutti coloro che da lui ricevono la risurrezione e la vita (cf. 1Cor 3,16; 6,15).

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