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«Parole della bioetica»: sorella morte | 2

Se nel post parallelo, curato da Gaia De Vecchi, per introdurci a una riflessione etica sulla morte si faceva riferimento al mito di Sisifo – costretto a un «lavoro assurdo» per aver ingannato Ade – vorremmo ora servirci ancora della mitologia per ampliare e stimolare la discussione su un tema così delicato, ma di cui spesso si preferisce non parlare.

Demofonte era figlio dei sovrani di Eleusi, Celeo e Metanira. Fu allevato da Demetra la quale, sotto mentite spoglie, percorreva la terra alla ricerca della figlia Persefone, rapita da Ade. La dea dell’agricoltura si affezionò al giovane principe e, per dimostrare la sua gratitudine, cercò di rendere immortale Demofonte, ponendolo sopra il fuoco durante la notte, in modo da bruciare tutto ciò che in lui era mortale. Una notte, quando Metanira scoprì i riti riservati al figlio, emise un grido e il bambino cadde nel fuoco. Secondo alcune tradizioni, l’erede al trono di Eleusi fu consumato dalle fiamme.

Il mito insegna che…

L’uomo ha sempre cercato di «ingannare» la morte. Se, però, in epoca pre-cristiana e con l’avvento del cristianesimo essa era compresa come evento ineluttabile che trovava senso in una chiara prospettiva dell’al di là, oggi, più che in passato, l’uomo è convinto di poter manipolare ogni cosa fino a «produrre» vita e salute. Proviamo a indicare quattro provocazioni a cui oggi la bioetica è chiamata a dare risposte:

  • 1) La cura del sano

L’OMS, nel 1948, ha definito la salute come «uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale», non coincidente con la semplice assenza di malattia. L’estremizzazione di questo concetto ha portato in molti a ritenere che scopo primario della medicina sia rispondere ai desideri e ai bisogni delle persone, giungendo talora a confondere il diritto alla salute col diritto alla realizzazione dei propri desideri.

Il decadimento dell’uomo (causato dalla malattia o dalla vecchiaia) dev’essere in ogni modo debellato e la morte scongiurata. Alla medicina vien chiesto di potenziare (to enhance) l’umano, fino a eliminare ogni traccia della sua fragilità. Così, l’uomo e la donna contemporanei desiderano essere «più belli», «più forti», «più intelligenti», «più longevi» e «meno malati».

Richiamando che ogni intervento sull’uomo deve sempre tener conto della tutela della dignità umana e della sua integrità psicofisica, che l’autonomia non è un valore assoluto e che non si possono eludere le buone norme della giustizia distributiva, ci chiediamo: potenziare i sani può voler dire non avere più malati? Un investimento nella medicina potenziativa potrebbe essere una forma di «prevenzione» di talune patologie? Ma… come si possono potenziare i sani se nel nostro sistema nazionale sanitario spesso mancano le risorse per curare i malati?

  • 2) Le disposizioni anticipate di trattamento

Ha fatto molto discutere l’entrata in vigore della legge 219/2017 in materia di consenso informato e disposizioni anticipate di trattamento. C’è chi ha affermato che tale normativa sarebbe l’anticamera della legalizzazione dell’eutanasia. In realtà, accogliere la possibilità della malattia, fare i conti con l’evento ineluttabile della morte non può, oggi, prescindere da una «sana» pianificazione delle cure.

Non si tratta solo di decidere quali terapie iniziare, quali continuare e quali sospendere. Il «tempo di cura» tra medico e paziente può diventare tempo fruttuoso per accogliere il proprio limite e «fare i conti» con la possibilità della morte.

  •  3) Il valore «penultimo» della vita fisica

Spesso, in ambito cattolico, chi sostiene la «sacralità» della vita corre il rischio di cadere in forme «biolatriche» che assolutizzano il valore della vita fisica, dimenticando che da sempre la tradizione cristiana lo ha considerato un valore penultimo, non ultimo, subordinato ad altri valori, come il bene del prossimo o il proprio bene spirituale. L’esistenza cristiana si realizza nel dono, fino al dono di sé.

  •  4) La sfida di risignificare la morte

La sempre più incalzante tabuizzazione della morte, unita ai processi di ipermedicalizzazione che toccano la vita del morente, pone l’uomo di oggi davanti alla via obbligata di fuggire dalla morte, che spesso si concretizza in un fuggire dal morente. È sempre più necessario ridare un volto umano alla morte iniziando dall’accettazione del limite umano: dell’essere ospiti e non padroni della vita (da parte del paziente) e dell’essere servitori dei più deboli e non divinità onnipotenti (da parte dei medici).

Forse Demofonte avrebbe vissuto più a lungo se Demetra, come segno di gratitudine per l’ospitalità dei suoi genitori, anziché impegnarsi per «ingannare» la morte gli avesse insegnato il valore immortale del dono.

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