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Perché si deve fare quello che si deve: quando sant’Anselmo anticipò Kant

«A un lettore avvezzo allo studio sia (…) di san Tommaso, sia (…) di Kant, come è chi scrive, l’etica di sant’Anselmo sembrò, nella sua fondazione, molto più vicina a quella kantiana che a quella tomista».

Da un pensiero azzardato....

Chi azzarda a vedere nel grande filosofo e teologo di Canterbury un Kant ante litteram e nel liberatore dalla minorità un «alunno postumo» di sant’Anselmo è Sofia Vanni Rovighi, che fu stimata filosofa medievalista, e che dichiarò di essere sempre stata colpita dall’assonanza/consonanza, ovviamente concettuale, dei due passaporti del pensiero morale dell’uno e dell’altro: come il pensiero morale di Kant viaggiò con il passaporto dell’imperativo categorico, alla stessa maniera secoli prima sant’Anselmo, in barba all’unico modo di veicolare il pensiero morale del suo tempo, inaugura (e con lui termina) un pensiero morale il cui passaporto è la rettitudine per se stessa.

La libertà di poter essere diversamente

Il rigore logico che ha contraddistinto l’autore del Monologion e del Proslogion non gli ha impedito di far prevalere l’aspetto fenomenologico della vita morale sulla costruzione metafisica, eleggendo a forza vettoriale di questa traiettoria il termine rettitudine, ovvero una sorta di «co-rispondenza» a un ideale (intellettivo e volitivo) che ha il suo fondamento – udite udite! – nella creazione, che qui molto sinteticamente possiamo caratterizzare come autonomia colta nella struttura umana rispetto alla struttura delle cose.

Potremmo dire che la «rettitudine» per sant’Anselmo è «fare ciò che si deve». Proviamo a spiegarci: l’essere delle cose è la loro verità, e questa esaurisce ogni loro possibile rettitudine ovvero il loro fare ciò che devono, perché le cose non possono essere diversamente da come sono.

L’essere dell’uomo è sì la sua verità, tuttavia questa non esaurisce ogni sua possibile rettitudine ovvero il suo fare ciò che deve, perché l’uomo può essere diversamente da com’è, il che vuol dire che egli ha il «potere» (il volere presuppone il potere, vi ricorda nulla?) di orientare con il suo agire il suo modo d’essere, ha un’autonomia di movimento che gli permette di dirigersi o secondo la spinta iniziale della sua natura o modificando questa spinta.

L’azione dell’uomo è sempre ciò che è, quindi ha una sua verità, ma considerandola come azione libera di un soggetto razionale (in senso ampio e non solo nell’accezione razionalistica) può essere priva di quella rettitudine (orientamento, direzione, ordine), quindi può non essere come deve essere.

Pertanto nell’esprimere la necessità di «riconoscere» nell’uomo che si deve realizzare ciò che costituisce un di più del semplice essere, Anselmo fonda una morale del dover essere. C’è un ordo, diremmo un’intelligibilità nella creazione, non solo in termini fisici ma anche morali.

Ciò si traduce – in assoluta controtendenza rispetto al modo di pensare al tempo di Anselmo – nel fatto che la rettitudine dell’agire sia il motivo stesso dell’agire, cosicché l’azione sia compiuta perché è moralmente retta e non per nessun altro motivo, neanche per Dio, fine ultimo.

Il lupo perde il pelo ma non la virtù

Chi non è in grado di cogliere in questo discorso la quintessenza della rappresentazione che Kant fa della moralità, associando quest’ultima all’importanza della sola motivazione morale in se stessa, che nel suo linguaggio è espressa con l’imperativo categorico o obbligazione che si pone contro la semplice inclinazione? Potremmo dire scherzosamente che siamo di fronte allo stesso pensiero che cambia pelo senza perdere la sua virtù. Sfido, infatti, chiunque a non avvertire una sorta di convergenza interiore!

Dunque, qualsiasi cosa ci capiti di volere, esisterebbe una ragione morale che trascende ciò. E secondo Kant ciò è possibile perché l’io razionale è libero dalla causalità.

Questa conclusione pratica di un «devo» incondizionato, distinto da un «devo» condizionato da un desiderio che a un uomo capita di volere, Kant la descrive come riconoscimento della richiesta della legge morale.

Anche in questa versione del pensiero morale occidentale emerge la moralità in senso specifico, cioè la moralità è autonoma, nel senso che non c’è nessuna ragione non morale per essere morali, in quanto niente che non sia già morale può spingerci alla moralità.

Conseguentemente se la ragione per essere morali è morale, già siamo dentro la moralità, ragion per cui la moralità richiede se stessa, perché – come si legge in Appendice contenuta nella sua Critica della facoltà di giudizio – «l’uomo è lo scopo finale della creazione», quest’ultima essendo da lui intesa come l’insieme di esseri dipendenti nella loro esistenza che hanno bisogno di una causa suprema che agisce secondo scopi. L’uomo, appunto!

Domanda caustica

Credo che questa convergenza interiore tra due autori per molti inaccostabili ci debba spingere nella direzione di una domanda: quando la teologia morale fa riferimento all’ordine della creazione coglie la sua portata innanzitutto filosofico-morale? Avremo modo di riparlarne.

 

Pietro Cognato insegna Teologia morale e bioetica presso la Facoltà teologica di Sicilia, l’Istituto di studi bioetici S. Privitera e la Facoltà di servizio sociale – LUMSA. Tra le sue opere Fede e morale tra tradizione e innovazione. Il rinnovamento della teologia morale (2012); Etica teologica. Persone e problemi morali nella cultura contemporanea (2015). Ha curato inoltre diverse voci del Nuovo dizionario di teologia morale (2019).

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