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Trafficare il tesoro della Parola

XXXIII domenica del tempo ordinario
Pr 31,10-13.19-20.30-31; Sal 128 (127); 1Ts 5,1-6; Mt 25,14-30

            Quando il servo buono e fedele restituisce al padrone i suoi cinque talenti aggiungendone altrettanti, si sente elogiato per «essere stato fedele nel poco» (Mt 25,21). Nel poco? Cinque talenti (per non parlare di dieci) sono un valore ingentissimo, corrispondono a vari quintali di metallo prezioso (non è dato determinarli con precisione, c’erano molti sistemi di misura). Perché si afferma che è poco? Evidentemente per indicare quanto sia immensa la realtà di prendere parte alla gioia del padrone (cf. Mt 25,21). Padrone? Guardando al senso metaforico dell’immagine, si tratta della gioia di Dio che si rallegra per la fedeltà dimostrata dai suoi figli quando Lui era lontano. I talenti sono dunque quanto Dio ci ha lasciato come segno della sua parziale presenza.

            Secondo un’interpretazione patristica i talenti, lungi dal rappresentare, come avviene nel linguaggio corrente, qualche dote personale, simboleggiano la parola di Dio. Come potrebbe essere altrimenti, visto il loro enorme valore? San Girolamo afferma che il denaro affidato ai servi è l’argento della parola di Dio: «Sta scritto: “La parola del Signore è parola pura, argento raffinato nel fuoco, temperato nella terra, purificato sette volte” (Sal 12,7)» (In Matth. IV, 22,14-30; PL 26,195). Ma se le cose stanno così, quello che viene messo in gioco dalla parabola è l’idea stessa di tradizione.

            La logica che presiede alla trasmissione della Parola e della dottrina dovrebbe essere quella dei talenti trafficati: solo rischiando di perderli si moltiplicano; di contro, se li si conserva sotterrandoli, li si condanna alla sterilità. In effetti, fin dalle cosiddette lettere pastorali, l’accento sembra piuttosto spostarsi su un talento staticamente custodito. I contenuti tendono a irrigidirsi in un’intoccabile immutabilità: «O Timòteo, custodisci il deposito» (1Tm 6,20; cf. 2Tm 1,12-14; 2,2; 3,14; Tt 1,9). Vale a dire: seppellisci il talento? Un lettura del genere sarebbe eccessiva; eppure in essa qualcosa di vero c’è.

            Quanto è indicativo, ancor più del sostantivo «deposito», è il verbo «custodire». L’assillo diviene la custodia, non il far fruttificare. L’imperativo ora è di mantenere intatto un bene che ci è affidato. Il dovere sembra innanzitutto quello di conformare le convinzioni di chi viene dopo a quel che c’è già. In pratica ci si limita a restituire intatto quanto ci è stato affidato. Tutto lo sforzo è perciò diretto verso il custodire il deposito senza apportarvi modifiche. L’ammonimento del conservatore è di non tradire la tradizione; ogni novità, quindi, cade sotto la scure di una presunta eresia. Come sappiamo, anche oggi alcuni continuano a ragionare in questo modo.

            La custodia irrigidita del deposito si poggia sul falso presupposto che fin dall’inizio tutto fosse dispiegato e chiaro e lo fosse in modo effettivo. Se questo è il punto di partenza, la tradizione diviene per forza di cose fedele a se stessa solo quando assume la forma di conservazione. In realtà, colta nel suo volto più autentico, essa alimenta la capacità di trarre fuori dal tesoro ricevuto cose nuove e non solo cose antiche. La successione va prospettata proprio in quest’ordine in cui il nuovo precede il vecchio (cf. Mt 13,52).

            Negli ultimi decenni, soprattutto grazie all’influsso esercitato da un autentico maestro spirituale, il camaldolese Benedetto Calati, molti sono venuti a conoscenza del detto di Gregorio Magno secondo il quale la Scrittura cresce con chi la legge. La Scrittura cresce con il suo lettore, infatti il suo scopo è di far progredire coloro che le si accostano per dare un senso più pieno alle loro vite. Come in ogni investimento ci sono dei rischi. Vi sono interpretazioni fuorvianti della Parola che producono una perdita e non già un guadagno. Tuttavia la via da percorrere rimane quella di trafficare e non già di sotterrare. Ci è chiesto tanto di avere il coraggio di rischiare, quanto di sperare di aver parte alla gioia di Dio che si rallegra per la fedeltà dimostratagli dai suoi figli.

 

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