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Tu hai parole di vita eterna

XXI domenica del tempo ordinario

Gs 24,1-2.15-17.18; Sal 34 (33); Ef 5,21-32; Gv 6,60-69

Con questa domenica giungono al termine i Vangeli tratti dal cosiddetto «discorso eucaristico» contenuto nel sesto capitolo di Giovanni. Lo fanno esaltando il ruolo della Parola: «Tu hai parole (remata) di vita eterna» (Gv 6,68). Così Simon Pietro; tuttavia era stato lo stesso Gesù ad affermare in precedenza: «È lo Spirito che dà la vita, la carne non giova nulla; le parole (remata) che vi ho dette sono spirito e vita» (Gv 6,63).

Nella parte centrale del discorso tenuto nella sinagoga di Cafarnao, Gesù si era presentato come pane vivo disceso dal cielo; se si mangia di quel pane si vivrà in eterno «e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo» (Gv 6, 51). Eppure alla fine del capitolo si trova, come abbiamo appena visto, un’espressione all’apparenza di tutt’altro segno: «La carne non giova a nulla». Il contrasto è radicale. Tutta la differenza si concentra in un aggettivo possessivo detto in prima persona: «La mia carne». La sua carne non è la nostra; essa infatti diviene luogo di donazione.

Secondo il suo tipico significato biblico il termine «carne» (ebraico baśar, greco sarx) attesta la dimensione mortale propria di ogni essere umano (anzi di ogni vivente). Quando Dio ritira il suo soffio tutti sono destinati a perire (cf. per esempio Gen 6,3; Is 31,3; 2Cr 32,8). È Dio infatti a dare vita a ogni carne (cf. Nm 27,16), la cui consistenza è in se stessa fragile come quella del fiore del campo e dell’erba che si secca appena germoglia (cf. Is 40,6-7). Tuttavia agli occhi di Dio proprio la precarietà diviene in più occasioni motivo di misericordia: «Ma lui misericordioso perdonava la colpa, invece di distruggere. Molte volte trattenne la sua ira e non scatenò il suo furore; ricordava che essi sono di carne, un soffio che va e non ritorna» (Sal 78,39). Ciò però non avviene quando la creatura umana scambia per forza la propria miseria, in tal caso valgono le parole di Geremia: «Maledetto l’uomo che confida nell’uomo, e pone nella carne il suo sostegno, allontanando il suo cuore dal Signore» (Ger 17,5).

La Parola (Logos) si fece carne (Gv 1,14). La carne in se stessa non giova nulla, tuttavia quando il Figlio viene nel mondo essa diventa una forma di donazione. L’atto di mangiare carne implica la morte, essa però nutre chi la consuma. Nella dimensione biologica vi è qualcosa di terribile in questa legge; non a caso la scelta vegetariana è comprensibilmente attuata da un numero crescente di persone.

Nella vita spirituale la realtà è differente, e lo è perché si tratta non di una legge naturale, ma di un dono che mette in pratica la simbologia (non occasionalmente vegetale) del frumento che dà molto frutto allorché muore (cf. Gv 12,24). La carne, per donare la vita, si trasforma in pane e il sangue in vino. A renderlo possibile è la Parola. Ciò vale, per così dire, anche percorrendo la via in modo inverso: in ogni celebrazione eucaristica il pane e il vino diventano carne e sangue di Gesù Cristo solo in virtù delle parole della consacrazione. Il Figlio ha donato alla sua Chiesa la capacità di pronunciare parole di spirito e vita.

Quella che può essere considerata una specie di versione giovannea della professione di fede di Pietro (che Matteo giudica ispirata dal Padre e non già dalla carne e dal sangue, cf. Mt 16,17) attesta la fiducia nel potere della parola di Gesù; colto in questa luce l’apostolo diviene simbolo della fede della Chiesa, a cui non è concesso luogo diverso da quello di stare presso il suo Signore: «Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna» (Gv 6,68).

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