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Vaccini: la nuova esitazione, il medesimo dovere

Onestamente mi piacerebbe potermi occupare anche d’altro, ma purtroppo l’attualità ci spinge sempre a tornare su temi che non possono lasciare indifferenti o senza un commento di natura etica.

Avevamo già affrontato su questa rubrica il problema dei no vax e quello della vaccine hesitancy, l’esitazione vaccinale. Adesso col «pasticciaccio» dell’AstraZeneca se ne presenta uno nuovo, anche se in fondo è una variante del precedente.

Già si partiva maluccio, con un vaccino presentato come meno efficace e maggiormente gravato di eventi avversi (soprattutto febbre e dolori muscolari), una sorta di «vaccino di serie B». Nonostante queste remore, e dato che la sua immissione consentiva di vaccinare ampi strati della popolazione, come i docenti, queste perplessità pur se presenti sono state accantonate, anche perché corroborate dal fatto che in molti (al di là del loro computo statistico) non avevano avuto febbre o alti eventi avversi maggiori, la copertura vaccinale era superiore al previsto, ecc.

Poi è scoppiato «il caso»: alcune morti «sospette» dopo la somministrazione del vaccino, il momentaneo ritiro dal commercio in alcune nazioni, la sospensione cautelativa di un lotto in Italia da parte dell’AIFA.

E qui si è aperta la campagna denigratoria mediatica, che ha portato circa 6.000 persone (ma forse di più) a disdire la prenotazione della vaccinazione.

Come stanno le cose? Era bello quel tempo in cui, dopo una partita della nazionale di calcio, diventavamo tutti commissari tecnici. Adesso siamo tutti virologi, infettivologi, epidemiologi ecc.

I criteri della sorveglianza farmacologica

– La sospensione cautelativa dell’uso di un farmaco o di un suo lotto costituisce una normale prassi di sorveglianza farmacologica, di cui il più delle volte il cittadino sa ben poco, tranne il fatto che, andando ad acquistarlo, il farmacista gli dice che per ora non si trova neanche nei depositi. Il paziente se ne torna a casa senza panico né ulteriori paure.

È stato così alcuni anni fa per un lotto di anestetici usati per l’analgesia peridurale (che le gestanti hanno continuato a praticare), per un noto antinfiammatorio sospettato di aumentare le epatopatie, che è stato poi regolarmente commercializzato per un antiemorragico endometriale. Chi lo ha saputo? Su quali testate è andata la notizia? E si trattava non certo di farmaci «salvavita» come questi.

– Prima di dire che un dispositivo terapeutico sia responsabile di una patologia o del decesso occorre accertare un nesso di causalità, cioè dimostrare in modo oggettivo che all’origine del decesso vi sia stato proprio quel farmaco.

Attualmente il nesso è solo temporale. Non serve dire che due o tre persone sono morte per lo stesso problema, perché la casualità o altri fattori concomitanti potrebbero avere giocato un ruolo fondamentale. D’altra parte, come viene detto in una battuta, il farmaco previene il coronavirus, non rende immortali.

– Un certo tasso di mortalità anche nella somministrazione di un farmaco è un evento tragico, soprattutto se colpisce soggetti giovani, ma contemplato anche con la somministrazione più innocua. Nel caso in oggetto l’attuale incidenza di mortalità rientra (anche se è brutto dirlo) «nei limiti della norma».

Qualche virologo dice addirittura che sia sovrapponibile a quella del placebo in uno studio controllato. D’altra parte sappiamo tutti che vi sono incidenti aerei nei quali si muore, ma l’aereo continuiamo a prenderlo soprattutto se abbiamo un serio motivo per farlo.

Responsabilità in gioco

E veniamo al punto più critico. Tutta questa vicenda, di cui attualmente non sappiamo gli sviluppi (magari saremo costretti a tornarci in un prossimo post!), porterà a una diminuzione delle vaccinazioni nonostante le esortazioni mediche, sociali e politiche ad avere nel minor tempo possibile il maggior numero di persone vaccinate: unica modalità, insieme ai comportamenti responsabili, per vincere la pandemia.

Ma nel dissuadere da tali prassi di fronte agli eventi sopra ricordati, scattano varie responsabilità:

– In primo luogo quella dei media, che però non sono un’entità astratta, in quanto dietro vi è qualcuno che li gestisce. Perché diffondere queste informazioni? Servono a qualcosa oltre a diffondere il panico e scoraggiare dalla vaccinazione? Possono indurre a qualche importante prassi preventiva? Il cosiddetto «dovere di informazione» ha dei limiti, quantomeno nell’enfasi che si dà alla notizia.

– Ma accanto ai produttori di notizie, cioè i giornalisti, vi sono i divulgatori delle stesse, cioè i tanti diffusori di panico che «viralizzano» le stesse sui social. Perché farlo? Ancora una volta per mettere in guardia e «salvare» la popolazione dai danni vaccinali lasciandoli perciò al rischio di contrarre l’infezione, finire in terapia intensiva e magari morire? Cui prodest?

– Ma poi ci sono, ed è ancora più grave, molti medici che tradiscono la loro professionalità e i loro doveri anche di ordine sociale, offendendo e mortificando quell’encomiabile lavoro di tanti colleghi che giustamente sono stati applauditi dai balconi al tempo del grande lockdown. Molti addirittura sono morti per assistere pazienti affetti dal COVID. Rallentare l’uscita dalla pandemia è irrispettoso anche nei loro confronti.

Vaccinarsi è un dovere, vincendo tutte le comprensibili paure. Tutti noi «non ne possiamo più» di questa pandemia. Abbiamo uno strumento per poterne uscire. Utilizziamolo al meglio.

 

Salvino Leone, medico, è docente di teologia morale e bioetica alla Facoltà teologica di Sicilia e vicepresidente dell'ATISM. Tra le sue opere più recenti Bioetica e persona. Manuale di bioetica e medical humanities, Cittadella, Roma 2020.

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