b
Blog

Venne da lui un lebbroso

VI domenica del tempo ordinario

Lv 13,1-2.45-46; Sal 32 (31), 1 Cor 10,31-11,1; Mc 1,40-45 

Il passo evangelico di questa settimana pone Gesù davanti a una malattia connotata da un’alta forma di emarginazione sociale. Il fatto in sé non va giudicato un puro arcaismo. L’isolamento è, a tutt’oggi, una misura adottata di fronte a un morbo contagioso. Tuttavia si comprenderebbe ben poco del Vangelo se lo si vagliasse con una mentalità degna di un ufficio d’igiene. Il punto chiave per comprenderne il messaggio sta in quello che, con terminologia moderna, potremmo definire il rapporto tra fede e società. Per quanto collocato in un contesto storico molto diverso dal nostro, l’episodio s’incentra proprio su questo tema.

«Venne da lui un lebbroso, che lo supplicava in ginocchio e gli diceva: “Se vuoi puoi purificarmi”» (Mc 1,40). Il malato domanda di essere purificato (verbo, katharizo, impiegato dai Vangeli in tutti i casi analoghi). Ci si riferisce quindi al modo in cui la lebbra è presentata dalla Torah scritta (Pentateuco). Come risulta dal Levitico (13,1-14,32), il termine corrisponde solo in piccola parte alla malattia che oggi va sotto questo nome. Con esso si indicava infatti una vasta serie di fenomeni patologici dotati di evidenti manifestazioni cutanee (si parla persino di lebbra dei vestiti e delle case).

Gesù, che nella sinagoga di Cafarnao aveva guarito di sabato l’indemoniato con la sola forza della parola (cf. Mc 1,23-24), non esita ora a compiere il gesto ardito di toccare il lebbroso. Il contatto è diretto e risanante (cf. Mc 1,41). Il demonio è azzittito, in quanto la sua forza stravolta si trova nel proclamare quel che a lui era illecito affermare (cf. Mc 1,24); il lebbroso è invece toccato, perché il suo male consiste in una muta e patologica manifestazione epidermica.

Il risanamento elimina di per sé la fonte dell’impurità. In una successiva scena evangelica, lo stesso sarebbe avvenuto in relazione sia al flusso di sangue sia alla morte (fonte entrambi di impurità; cf. Mc 5,21-42). Per quanto in questo passo non compaia in modo esplicito la parola «fede», la guarigione del lebbroso appare ugualmente frutto dell’incontro tra la compassione di Gesù e la fede del malato che lo supplica in ginocchio.

A differenza del caso della donna affetta da perdite di sangue, sulla bocca di Gesù non compare la frase: «La tua fede ti ha salvato» (Mc 5,33); tuttavia non sembra di errare sostenendo che nel caso del lebbroso l’espressione sia, per così dire, implicita e gestuale. Il risanamento è accompagnato da un comando. Gesù, in ossequio alla regola della Torah, impone al lebbroso guarito di farsi vedere dai sacerdoti (cf. Mc 1,44; cf. Lv 14,1-32). Il reinserimento nella società avviene seguendo le regole comuni del proprio ambiente. Il miracolo deriva da un rapporto diretto con Gesù, mentre l’uomo, tornato socialmente «normale», è invitato a conformarsi alle regole proprie della società ebraica stabilite dalla Legge e non già dalla fede. Sia in antico sia ai nostri giorni, la convivenza civile è fondata sul rispetto delle leggi. Gesù, con il suo gesto, vince l’emarginazione ma non scardina la società.

Alla fine del nostro episodio le parti, in un certo senso, s’invertono. Il lebbroso risanato è reinserito nel consorzio civile in base alle regole della Torah, Gesù invece non rientra in città ma, proprio come un lebbroso, resta fuori in luoghi deserti (Mc 1,45). La compassione, quando è autentica (Marco usa qui l’intenso verbo splanchnizomai, cf. Mc 1,41; 6,34; 8,2), assume sempre su di sé la condizione dell’«altro», ormai diventato prossimo. Anche quando il lebbroso è purificato, il guaritore non dimentica la precedente umiliazione del malato. Il risanato se ne va in città, Gesù resta invece nel deserto quasi a custodire il ricordo dell’emarginazione sociale da cui lui stesso ha liberato il lebbroso. Come negare la pertinenza spirituale di questa lettura pur sprovvista di autentico rigore esegetico?

Lascia un commento

{{resultMessage}}