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XII domenica | Riconoscimento e rinnegamento

Ger 20,10-13; Sal 68 (69); Rm 5,12-15; Mt 10,26-33

        I ritmi mobili della Pasqua fanno sì che quando si ricomincia la trafila delle «verdi» domeniche del tempo ordinario ci si possa trovare nel mezzo di un discorso già iniziato. È come quando si comincia a vedere un film non dal principio: per capire la trama occorre cercare di ricostruire quanto avvenuto in precedenza. Lo stesso vale per il Vangelo odierno: si prendono le mosse da metà discorso, il secondo dei cinque che contraddistinguono il Vangelo di Matteo.

       Al «discorso della montagna» (Mt 5-7), Matteo fa seguire quello cosiddetto missionario (cf. Mt 10; gli altri tre saranno il parabolico, l’ecclesiale e l’escatologico). Il capitolo inizia con la convocazione dei 12 discepoli. A loro viene dato il potere di scacciare gli spiriti impuri e di guarire infermità e malattie; le capacità peculiari di Gesù vengono trasferite anche ai discepoli. Subito prima di dar avvio al grande discorso tenuto sul monte, Matteo infatti aveva, non a caso, descritto l’attività risanatrice di Gesù come un corollario necessario all’annuncio del Regno (cf. Mt 4,23-25). Non c’è buon annuncio senza risanamento. Subito dopo l’indicazione dei poteri a loro conferiti, si elencano i nomi dei dodici: il primo tra loro è «Simone detto Pietro», l’ultimo «Giuda l’Iscariota, colui che poi lo tradì» (Mt 10,1-3).

       Nell’inviare i discepoli Gesù prospetta loro che l’annuncio non sarà accolto da tutti, afferma perciò che si compirà una discriminazione tra chi l’accetta e chi lo respinge. Agli annunciatori spetta di riferirsi a questa demarcazione solo in modo simbolico. A loro è preclusa ogni ritorsione effettiva. «Entrando nella casa, rivolgetele il saluto. Se quella casa ne è degna, la vostra pace scenda su di essa, ma se non ne è degna, la vostra pace ritorni a voi» (Mt 10,13). Il saluto rivolto dai discepoli è dunque quello ebraico: shalom.

       Nel Deuteronomio, là dove si parla di guerra, si sostiene che i figli d’Israele prima devono offrire la pace alla città che stanno per attaccare, se si arrende e paga il tributo sarà risparmiata, ma se non accetta di subordinarsi sarà assalita. La pace offerta dai discepoli non è legata a questa logica ricattatoria; tuttavia essa è consapevole che la pace può essere respinta; in tal caso però il giudizio non tocca agli uomini. Al più i discepoli, inviati in missione senza né sandali né bastone, sono invitati a scuotere la polvere dei loro piedi contro la casa che li rifiuta (cf. Mt 10,14); un gesto che segna uno scacco prima di tutti per chi lo compie: «Come sono belli sui monti i piedi del messaggero che annuncia la pace, del messaggero di buone notizie che annuncia la salvezza» (Is 52,7).

       «Perciò chiunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anch’io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli, chi invece mi rinnegherà davanti agli uomini, anch’io lo rinnegherò davanti al Padre mio che è nei cieli» (Mt 10,32). Il compito del giudizio è del Figlio, non degli annunciatori. I tempi e i momenti della discriminazione non sono affidati agli evangelizzatori. Il primo della lista dei discepoli è Simon Pietro; l’ultimo Giuda. Che cosa fece Pietro quando, trascorso il momento dell’annuncio, irruppe quello della passione? Riconobbe o rinnegò? «Non conosco quell’uomo» (Mt 26,72). I tempi dell’accoglienza e del rifiuto valgono anche per gli annunciatori. L’accettazione non è una volta per tutte, e neppure il rinnegamento. Per questo motivo i tempi del giudizio e quelli della misericordia sono nelle mani del Figlio e del Padre, non in quelle degli uomini.

 

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