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XIV Domenica del tempo ordinario | Il mio giogo è dolce

Zc 9,9-10; Sal 144 (145); Rm 8,9.11-13; Mt 11,25-30

 

       Per comprendere l’espressione messa sulle labbra di Gesù, «Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero» (Mt 11,30), bisogna tener conto delle sue risonanze paradossali. Si sarebbe più leggeri se non ci fosse alcun carico, si sarebbe più liberi se il giogo non gravasse sulle spalle. Invece si deve passare proprio attraverso giogo e peso. In questi versetti si respira la stessa aria delle Beatitudini; in essi si indica un rovesciamento, non un esonero dal gravame; anche qui, come all’inizio del Discorso della montagna, i due estremi si toccano. Per gli stanchi e per gli oppressi Gesù impiega un’immagine sabbatica, parla infatti di riposo (anapausis, la traduzione «ristoro» non è felice. Non a caso, subito dopo, Matteo introduce una discussione proprio dedicata al sabato, Mt 12,1-8).

       Il comandamento del sabato (cf. Es 20,8-11) contiene in se stesso una duplice prescrizione; esso dapprima comanda di lavorare per sei giorni, e in seguito ordina il riposo del settimo giorno. Il precetto vede nel riposo sabbatico il coronamento dell’operare. I due momenti sono collegati, tuttavia restano distinti: prima l’uno, poi l’altro. In Gesù invece le due componenti si danno nello stesso tempo. Gli stanchi e gli oppressi prendono su di loro il giogo e il peso, e appunto in ciò trovano il loro riposo. Avviene così perché Gesù dice loro: «Venite a me» (Mt 11,28). Il loro riposo è in Gesù.

       Nella Bibbia il termine «giogo» è impiegato in vari modi. Uno dei più qualificanti usa l’immagine dello spezzare o del togliere il giogo inteso come atto di liberazione. In questi termini i profeti annunciano il riscatto, in cui il giogo sarà rimosso per opera del Signore (Is 9,3; 10,27; 14,25; Ger 28,2.4.11). All’opposto, quando è il popolo a spezzare da se stesso il giogo, il giudizio è negativo. Qui l’immagine non indica l’oppressione; al contrario essa è orientata verso il servizio. Rompere il giogo, lungi dal significare liberazione dall’oppressione, attesta il rifiuto di legarsi agli obblighi interni all’alleanza: «Anche questi hanno rotto il giogo, hanno spezzato i legami» (Ger 5,5).

       Nella tradizione rabbinica la prima parte dello Shema («Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, unico è il Signore…»; Dt 6,4-9) è definita l’accettazione del giogo del Regno dei cieli, mentre la seconda («Ora se ascoltando ascolterete [vale a dire, se obbedirete] ai comandi che oggi vi do...» Dt, 11,13-21) è chiamata l’accoglimento del giogo dei precetti. Vale a dire, si afferma dapprima la signoria di Dio e, come sua conseguenza, si addita la messa in pratica della volontà di Dio espressa nei comandamenti. In quest’ultimo caso il giogo è paragonabile a quello posto sul collo degli animali che aiutano gli esseri umani ad arare il campo.

       Vi sono anche pesi posti sulle spalle degli altri per volontà non già di Dio, ma di uomini che ritengono di parlare in nome di Dio. Ciò avviene non di rado nelle comunità religiose di ieri e di oggi. Gli scribi e i farisei che pongono sulle spalle degli uomini pesi opprimenti che si guardano bene di sfiorare in proprio anche solo con un dito (cf. Mt 23,4) non sono confinati all’epoca di Gesù.

       «Il mio gioco è dolce». È quello che Gesù porta o quello che chiede ai discepoli di portare? È l’una e l’altra cosa. Lui non impone agli altri pesi che egli non porta in prima persona. A comprovarlo è il detto stesso di Gesù: «Imparate da me che sono mite e umile di cuore» (Mt 11,29). Imparate a essere anche voi miti e umili e allora il vostro giogo coinciderà con il mio e troverete riposo perché «io vi riposerò (anaopaysō ymas)» (Mt 11,28).

 

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