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Documenti, 5/2020, 01/03/2020, pag. 150

Mediterraneo, frontiera di pace

Incontro di riflessione e spiritualità tra i vescovi del Mediterraneo (Bari, 19-23.2.2020)

Card. g. Bassetti, papa Francesco

Promosso su iniziativa della Conferenza episcopale italiana e pensato più come un sinodo che come un convegno, l’Incontro di riflessione e spiritualità «Mediterraneo, frontiera di pace» era stato lanciato come idea già nel Consiglio permanente del marzo 2018 (cf. Regno-doc. 7,2018,225). Tenutosi a Bari dal 19 al 23 febbraio, con la partecipazione di 58 fra vescovi, patriarchi e cardinali le cui diocesi si affacciano sul Mediterraneo, si prefiggeva di «riscoprire il significato di una comune appartenenza al Mediterraneo, quindi (di) attingere alla bellezza e alla forza della comunione fraterna, e mettere a fuoco una profezia di unità» (card. Gualtiero Bassetti).

L’iniziativa è stata fortemente supportata da papa Francesco, che il 7 luglio 2018 in quella stessa città aveva convocato i capi delle Chiese e delle Comunità cristiane del Medio Oriente per una preghiera ecumenica per la pace (cf. Regno-doc. 15,2018,472ss), e che ha partecipato celebrando la messa conclusiva. L’incontro ha prodotto un documento conclusivo di proposte, che è stato consegnato al papa il 23 febbraio.

Stampa (24.2.2020) da sito web www.mediterraneodipace.it. Titolazione redazionale.

Bellezza e violenza
Discorso di apertura del card. G. Bassetti

Carissimi e venerati fratelli,

eccoci assieme! Grazie di aver accolto l’invito che, a nome della Chiesa italiana, vi ho rivolto per questo momento di spiritualità e di riflessione. In questo nostro nobile convenire prendono voce tutte le Chiese rivierasche: siamo qui per riscoprire il significato di una comune appartenenza al Mediterraneo, quindi per attingere alla bellezza e alla forza della comunione fraterna, e per mettere a fuoco una profezia di unità.

La storia e la maestosità del castello che ci accoglie, grazie alla squisita ospitalità della città di Bari e della sua comunità, dicono molto della ricchezza e, al tempo stesso, delle contraddizioni del Mediterraneo. Questa fortificazione, più volte distrutta e ricostruita, è memoria indelebile della violenza che questa città, nel corso della sua storia millenaria, ha tante volte subito; per ultimo con un terribile bombardamento durante la seconda guerra mondiale.

Come sappiamo bene, carissimi fratelli, il Mediterraneo non è solo bellezza generata dall’incontro delle diversità, ma anche violenza che esplode a causa dell’incapacità di comporre i giochi di potere, gli interessi contrapposti e le paure che queste stesse diversità possono alimentare.

In prossimità del porto e della cattedrale – quindi del mare e della terra – questo castello testimonia che il Vangelo non giunge da alcuna parte se non incontrando la vita di persone concrete, col loro vissuto di lingue e culture, di attese e speranze. Nessuna cattedrale esisterebbe senza «porti», nemmeno nell’Europa continentale; tutte portano i segni e sono il frutto delle diverse modalità di comprendere, incarnare e trasmettere la fede in Gesù. Il Vangelo stesso, la vita cristiana vissuta fra i popoli, l’arte, la liturgia, la teologia hanno costituito, costituiscono e possono costituire ancora, luogo d’incontro e di sintesi, di genio e di creatività culturale, a beneficio di tutti.

Vocazione comune

Vi chiederete quali sentimenti, quali ricordi, quali principi ispiratori siano all’origine di questo nostro incontro. Da quando ho conosciuto il «sindaco santo» di Firenze, Giorgio La Pira, il Mediterraneo ha iniziato a parlare al mio cuore. Si è fatto poi annuncio e proposta due anni fa, quando ho cominciato a sentire dentro di me l’incontenibile sofferenza del Mare nostrum, ridotto a tomba di migliaia di fratelli. È così che mi sono ricordato delle parole pronunciate da La Pira: «Il Mediterraneo torni a essere quello che fu».

La peculiarità di questo ritrovarci – non in un convegno culturale, né per una conferenza – è quella di esprimere il nostro modo più autentico di vivere ed essere Chiesa, che dà voce alle difficoltà e alle domande dei popoli che si affacciano sul Mediterraneo, in un momento che per tanti di loro è davvero drammatico.

Si tratta di un incontro fraterno, tappa di un percorso più ampio; un’iniziativa che ci chiama ad accogliere quanto lo Spirito Santo saprà suscitare in un confronto e in una discussione che, ne siamo certi, avverrà con franchezza.

La comune appartenenza mediterranea delle nostre Chiese, la nostra comunione cum Petro et sub Petro e la ricchezza delle nostre tradizioni ci indicano – nel rispetto e nella valorizzazione delle diversità – una vocazione comune. Una vocazione che ci rimanda all’essere profondo della Chiesa:

– essere Chiese che ritornano costantemente alle sorgenti della fede, per trasmettere ai giovani e alle future generazioni la bellezza e la gioia del Risorto;

– essere Chiese delle beatitudini, attente a far germinare una nuova cultura del Mediterraneo, che non può che essere cultura dell’incontro e dell’accoglienza, pena il disordine incontrollato, l’impoverimento diffuso e la distruzione d’intere civiltà;

– essere Chiese della profezia, rispetto a ogni sistema di potere e di arricchimento che genera indifferenza, paure, chiusure e quindi iniquità, oppressione, guerre, crimini contro l’umanità;

– essere Chiese dei «martiri mediterranei» che sanno riconoscere i segni dei tempi e sono capaci di dialogo per «disarmare» ogni uso blasfemo del nome di Dio in odio al fratello.

Carissimi, accogliendoci l’un l’altro, tocchiamo con mano la bellezza del mosaico delle culture e delle tradizioni cristiane mediterranee, ma non possiamo non aver presenti i drammi che oggi vivono i nostri popoli.

La bellezza e la sofferenza del Mediterraneo sono state presenti sin dalla preparazione di questo incontro, che, oltre al prezioso e competente lavoro del Comitato scientifico-organizzativo, si è avvalsa delle voci delle Chiese mediterranee, rimbalzate e diffuse grazie al servizio dei media. Alla nostra voce si è unita quella di tanti monasteri di vita contemplativa, sparsi per tutta l’area mediterranea: le monache si sono incontrate nella preghiera e nello scambio epistolare per offrirci il contributo della loro riflessione e sostenerci con la loro condivisione spirituale.

Il rischio di un caos incontrollato

Ho avuto l’opportunità di viaggiare molto negli ultimi mesi e di toccare alcune nazioni del Mediterraneo: quanta sofferenza, quanta ingiustizia, quanta indifferenza. Questo è il contesto nel quale siamo chiamati a vivere la nostra comune vocazione per una cultura dell’incontro e della pace nel Mediterraneo. Tale vocazione non può essere destinata a rimanere un semplice buon proposito, ma è l’unica possibilità realistica di benessere e prosperità dei nostri popoli, l’unica via che ne può assicurare la sopravvivenza.

È la guerra a essere una tremenda anti-utopia, una tragica farsa sulla pelle dei poveri: nella complessità delle relazioni internazionali, infatti, la competizione fra le diverse potenze non può essere decisa con la forza delle armi, pena la distruzione del pianeta. Nell’era dei droni e delle bombe nucleari, nell’era in cui per la prima volta siamo costretti a fare i conti con il fatto che le risorse della terra non sono infinite e in quella in cui la scienza e la tecnologia hanno connesso il mondo, mettendo l’uomo in condizione di distruggere o salvare il pianeta, non c’è alternativa alla risoluzione pacifica delle controversie e alla collaborazione.

La tutela dell’ambiente e della salute umana necessitano di un alto grado di costante collaborazione e scambio di informazioni, di relazioni internazionali, scientifiche, culturali, educative, fondate sulla trasparenza, sulla veridicità, sulla fiducia. La solidarietà fra i popoli e la capacità di darsi regole comuni per salvaguardare e promuovere la pace, l’ambiente, la dignità del lavoro e la salute non sono sogni, ma la condizione per garantire la sopravvivenza ordinata e pacifica del pianeta. Sono obiettivi a portata dell’umanità contemporanea e sono nel contempo il riflesso della verità profonda dell’uomo che Gesù Cristo ha rivelato e salvato.

Soprattutto nel bacino mediterraneo, dove convergono le tensioni e le contrapposizioni del mondo intero, l’alternativa alla pace è il rischio di un caos incontrollato. Gli scontri terroristici e militari procurano morte e sofferenze indicibili alle popolazioni inermi; la comunità internazionale e le organizzazioni sovranazionali gestiscono a fatica le crisi umanitarie che ne derivano, tollerando spesso violazioni ai diritti umani. Dobbiamo dire basta a questa politica fatta sul sangue dei popoli! Dobbiamo pretendere che le controversie internazionali siano affrontate e risolte nel quadro del diritto, del bene comune e di una più forte, più funzionale e incisiva azione delle Nazioni Unite.

Né dobbiamo dimenticarci, cari fratelli, che il muro che divide i popoli è soprattutto un muro economico e di interessi. C’è una frontiera invisibile nel Mediterraneo che separa i popoli della miseria da quelli del benessere, e non conta se al di qua e al di là di questa frontiera ci sono minoranze ricchissime e crescenti impoverimenti. È stata tradita la promessa di sviluppo dei popoli usciti dagli iniqui sistemi coloniali del secolo scorso, mentre sono ridotte le capaci-
tà degli stati più ricchi di condurre politiche sociali inclusive.

C’è un nesso inscindibile fra la povertà e l’instabilità: non potrà esserci pace senza miglioramento di vita nelle aree depresse del Mediterraneo e nell’Africa sub-sahariana, non potrà esserci sviluppo sostenibile senza che cambino le regole che sottostanno a un’economia dell’iniquità che uccide. Non potrà esserci arresto delle crisi migratorie e umanitarie senza che sia restituito a ogni uomo e a ogni donna, cittadini del mondo, il diritto di restare nella propria patria a costruire un futuro migliore per sé e per la propria famiglia, e senza che a questo diritto sia affiancato anche quello di spostarsi. Liberi di partire, liberi di restare è la linea che, come Conferenza episcopale italiana, ci siamo dati nella nostra azione solidale nei confronti dei popoli impoveriti.

Riconoscere il nostro peccato

Un triplice dono ci è stato fatto nel secolo scorso, in particolar modo con il concilio Vaticano II: quello di riconoscere il valore della diversità liturgica, teologica e canonica delle diverse tradizioni cristiane della comunione cattolica, quello d’intraprendere il cammino ecumenico fra le Chiese, quello di comprendere – a partire dal mistero che ci unisce al popolo ebraico – che il dialogo fra le diverse religioni è già testimonianza della gioia della risurrezione di Cristo e accoglimento del mistero della sua presenza di grazia nella storia degli uomini.

Essere Chiesa profetica che vive della beatitudine dei poveri, degli affamati e assetati di giustizia, però, non è possibile senza prima passare per il miserere. Dobbiamo riconoscere che, fin dall’antichità cristiana, le nostre divisioni ecclesiali hanno ricalcato e rinforzato le divisioni culturali, politiche e militari dei popoli mediterranei. Riconoscere il peccato della divisione della Chiesa ci aiuta oggi a capire la grazia che ci è stata donata col concilio ecumenico Vaticano II. La Chiesa, «rovesciando le crociate» (per usare un’espressione di La Pira) e contrastando ogni mentalità del passato, partecipa con convinzione al cammino ecumenico con la testimonianza della carità e della giustizia, così come pratica e propone convintamente il dialogo interreligioso.

Per questo le Chiese, e in particolare la Sede apostolica, negli ultimi trent’anni si sono trovate sempre dalla parte opposta rispetto a coloro che soffiano sul fuoco dello scontro delle civiltà e del fondamentalismo religioso.

Essere minoranza

Cari fratelli, le nostre Chiese non sono diverse solo sulla base di antiche tradizioni che le sostengono e delle culture in cui sono chiamate a portare l’annuncio del Vangelo, ma anche per le condizioni concrete in cui vivono. Tutti però ci troviamo accomunati dalla sfida entusiasmante della trasmissione del Vangelo. Ci sono fra noi Chiese che conoscono un incremento di fedeli connesso al fenomeno delle migrazioni; così, ci sono Chiese che sussistono come minoranze, piccolo seme, in mezzo a popolazioni islamiche.

È soprattutto a queste Chiese, alla loro mediazione e al sangue dei loro martiri, che dobbiamo l’anticipazione e la ricezione più profonda della dottrina conciliare sul dialogo interreligioso con l’islam. Fra queste ve ne sono alcune che, a causa dei rivolgimenti geopolitici degli ultimi 30 anni (con le infinite guerre connesse), hanno conosciuto e stanno conoscendo sfollamenti e migrazioni, con i loro cristiani esposti a persecuzioni e minacce, che rischiano di cancellarne la presenza millenaria.

Come non far nostra la testimonianza di valore altissimo espressa nel testamento del beato Christian De Chergé, martire in Algeria? «La mia morte – scrive – evidentemente sembrerà dare ragione a quelli che mi hanno rapidamente trattato da ingenuo, o da idealista: “Dica adesso quello che ne pensa!”. Ma queste persone debbono sapere che sarà finalmente liberata la mia curiosità più lancinante. Ecco, potrò, se a Dio piace, immergere il mio sguardo in quello del Padre, per contemplare con lui i suoi figli dell’islam, così come li vede lui, tutti illuminati dalla gloria del Cristo. Frutto della sua passione, investiti del dono dello Spirito, la cui gioia segreta sarà sempre quella di stabilire la comunione, giocando con le differenze».

Sulla sponda settentrionale del Mediterraneo, i processi avanzati di secolarizzazione, il congedo definitivo dall’eredità del passato e – dobbiamo riconoscerlo – la stessa lentezza con cui stiamo rispondendo alle esigenze di rinnovamento suggerite dal Concilio, dalla «nuova evangelizzazione» e dalla «conversione pastorale e missionaria», ci rendono attoniti di fronte al fatto che la fede è trasmessa solo a una minoranza delle nuove generazioni.

Come aiutarci fra Chiese ad abitare un’area me-
diterranea dove i cristiani sono dovunque una minoranza?

Cari fratelli, pur con le comprensibili differenze, la trasmissione della fede nel contesto mediterraneo odierno è sfida che accomuna tutti noi. Credo che sia necessario e utile non solo il confronto fra vescovi, ma anche l’impegno a far crescere la coscienza fra i nostri giovani che la fede in Gesù risorto genera comunione di vita per la crescita e la realizzazione di un’umanità compiuta.

Come far maturare, concretamente, questa coscienza della comunione nella diversità, nei nostri giovani? Essi ci risultano talvolta indecifrabili, inseriti come sono in una rete globalizzata di relazioni e di pluri-appartenenze, riflesso di un’epoca in cui la stessa velocità dei cambiamenti mette in crisi le modalità tradizionali di comunicare il Vangelo e di vivere la comunità ecclesiale. A ciò si aggiunge la partenza dalle nostre terre di molti giovani in cerca di lavoro e di futuro, con ripercussioni immediate nella loro progettualità familiare e nella vita ecclesiale e sociale.

Carissimi fratelli, lo ripeto: spero che questo nostro ritrovarci sia l’avvio di un processo che ci consenta di condividere e offrire ai nostri popoli una visione non frammentaria, ma complessiva e organica dei problemi e delle ricchezze del Mediterraneo, necessaria per superare le crisi che stiamo vivendo.

Noi vescovi, ad esempio, non possiamo vedere la questione dei migranti in maniera settorializzata, come se fosse solo un problema di «esodi» che impoveriscono i territori o di «arrivi» che li destabilizzano: il povero, che parte o che decide di restare, che arriva e che troppo spesso muore durante il viaggio o conosce sofferenze e ingiustizie indicibili, è Cristo che emigra, resta, soffre, bussa alle nostre porte.

I problemi con cui ci misuriamo costituiscono uno stimolo ulteriore a superare, noi per primi, le barriere che attraversano il Mediterraneo e a intensificare l’incontro e la comunione fra di noi. Ne avvertiamo la responsabilità e l’urgenza, convinti come siamo che la tessitura di relazioni fraterne è condizione per partecipare al processo d’integrazione.

La questione cruciale della cittadinanza

Ho più volte fatto riferimento al dialogo intra-ecclesiale, all’ecumenismo e al dialogo interreligioso; essi sono «luoghi teologici e pastorali», strumenti preziosi per la comprensione delle nostre realtà ecclesiali e per offrire il contributo alle sfide dell’area mediterranea in cui abitiamo.

Abbiamo la grazia di vivere in una nuova, coraggiosa, coerente e profetica fase di recezione conciliare inaugurata dal ministero e dal magistero di papa Francesco che, con l’invito alla conversione pastorale e missionaria, ci spinge a una più intensa pratica della sinodalità che coinvolge il popolo di Dio nella sua infallibilitas in credendo. Il nostro incontro assume il metodo sinodale e vuole essere a servizio delle dinamiche delle Chiese del Mediterraneo; per questo non abbiamo voluto che queste giornate si riducessero a un convegno internazionale, nutrito di dotte relazioni.

Siamo qui, invece, per ascoltarci e porgere al santo padre Francesco quanto sarà emerso dallo scambio fraterno, nella speranza che il cammino intrapreso continui e si rafforzi. Lo dico forte anche della tradizione viva della città di Bari, dove con il papa Francesco si è vissuto uno storico incontro dei patriarchi del Medio Oriente.

Il dialogo fra le religioni abramitiche, a sua volta, contribuisce a disegnare i fondamenti di un nuovo concetto di «cittadinanza» per far fronte alle sfide della globalizzazione del terzo millennio. Papa Francesco e il grande imam di al-Azhar hanno posto un atto profetico con la loro amicizia e il Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune. Come nota il card. Parolin, in questo testo s’intravedono le prospettive della comune e paritaria cittadinanza, presupposto e conseguenza di una vera fratellanza. La questione della cittadinanza è cruciale per tutti: è questione che si pone in maniera nuova per gli stessi paesi di antica tradizione democratica con le sfide dell’accoglienza e dell’integrazione dei migranti, dello spazio pubblico reclamato da tutte le religioni; paesi che si ritrovano a fare i conti con la pericolosa tentazione d’involuzioni identitarie, che minano il fondamento dei diritti inviolabili della persona.

Nell’area mediterranea – scrive p. Claudio Monge – si confrontano non solo le religioni abramitiche, ma anche «un imponente fronte “secolare”, distante da un riferimento religioso interiore e interiorizzato, ma non per questo estraneo a una “manipolazione identitaria” della matrice religiosa, trasformata in “religione civile”».

È questo il cambiamento d’epoca che siamo chiamati ad affrontare: su di noi pesa la responsabilità di essere promotori di quella conversione pastorale e missionaria da cui dipende, in tanti luoghi di antica cristianità, la permanenza di una presenza significativa della Chiesa.

Aiutiamoci, con parresia evangelica, ad assumere il compito a cui lo Spirito Santo oggi ci chiama.

Sentiamo tutta la grandezza di tale compito. Aldo Moro, un martire della terra che ci ospita, un uomo – come lo definì san Paolo VI – «buono, mite, saggio, innocente», osservava con un misto di realismo e di fiducia: «Forse il destino dell’uomo non è di realizzare pienamente la giustizia, ma di avere perpetuamente della giustizia fame e sete. Ma è sempre un grande destino».

 

Gualtiero card. Bassetti,

presidente della CEI

Il mare del meticciato
Papa Francesco

Cari fratelli,

sono lieto di incontrarvi e grato a ognuno di voi per avere accettato l’invito della Conferenza episcopale italiana a partecipare a questo incontro che riunisce le Chiese del Mediterraneo. E guardando oggi questa chiesa [la Basilica di San Nicola], mi viene in mente l’altro incontro, quello che abbiamo avuto con i capi delle Chiese cristiane – ortodosse, cattoliche… – qui a Bari. È la seconda volta in pochi mesi che si fa un gesto di unità così: quella era la prima volta, dopo il grande scisma, che eravamo tutti insieme; e questa è una prima volta di tutti i vescovi che si affacciano sul Mediterraneo. Credo che potremmo chiamare Bari la capitale dell’unità, dell’unità della Chiesa – se mons. Cacucci lo permette! Grazie dell’accoglienza, eccellenza, grazie.

Quando, a suo tempo, il card. Bassetti mi presentò l’iniziativa, la accolsi subito con gioia, intravedendo in essa la possibilità di avviare un processo di ascolto e di confronto, con cui contribuire all’edificazione della pace in questa zona cruciale del mondo. Per tale ragione ho voluto essere presente e testimoniare il valore contenuto nel nuovo paradigma di fraternità e collegialità, di cui voi siete espressione. Mi è piaciuta quella parola che voi avete aggiunto al dialogo: convivialità.

Trovo significativa la scelta di tenere questo incontro nella città di Bari, così importante per i legami che intrattiene con il Medio Oriente come con il continente africano, segno eloquente di quanto radicate siano le relazioni tra popoli e tradizioni diverse. La diocesi di Bari, poi, da sempre tiene vivo il dialogo ecumenico e interreligioso, adoperandosi instancabilmente a stabilire legami di reciproca stima e di fratellanza. Non è un caso se proprio qui, un anno e mezzo fa – come ho detto – ho scelto di incontrare i responsabili delle comunità cristiane del Medio Oriente, per un importante momento di confronto e comunione, che aiutasse Chiese sorelle a camminare insieme e sentirsi più vicine.

Luogo fisico e spirituale

In questo particolare contesto, vi siete riuniti per riflettere sulla vocazione e le sorti del Mediterraneo, sulla trasmissione della fede e la promozione della pace. Il Mare nostrum è il luogo fisico e spirituale nel quale ha preso forma la nostra civiltà, come risultato dell’incontro di popoli diversi. Proprio in virtù della sua conformazione, questo mare obbliga i popoli e le culture che vi si affacciano a una costante prossimità, invitandoli a fare memoria di ciò che li accomuna e a rammentare che solo vivendo nella concordia possono godere delle opportunità che questa regione offre dal punto di vista delle risorse, della bellezza del territorio, delle varie tradizioni umane.

Ai nostri giorni, l’importanza di tale area non è diminuita in seguito alle dinamiche determinate dalla globalizzazione; al contrario, quest’ultima ha accentuato il ruolo del Mediterraneo, quale crocevia di interessi e vicende significative dal punto di vista sociale, politico, religioso ed economico. Il Mediterraneo rimane una zona strategica, il cui equilibrio riflette i suoi effetti anche sulle altre parti del mondo.

Si può dire che le sue dimensioni siano inversamente proporzionali alla sua grandezza, la quale porta a paragonarlo, più che a un oceano, a un lago, come già fece Giorgio La Pira. Definendolo «il grande lago di Tiberiade», egli suggerì un’analogia tra il tempo di Gesù e il nostro, tra l’ambiente in cui lui si muoveva e quello in cui vivono i popoli che oggi lo abitano.

E come Gesù operò in un contesto eterogeneo di culture e credenze, così noi ci collochiamo in un quadro poliedrico e multiforme, lacerato da divisioni e diseguaglianze, che ne aumentano l’instabilità. In questo epicentro di profonde linee di rottura e di conflitti economici, religiosi, confessionali e politici, siamo chiamati a offrire la nostra testimonianza di unità e di pace. Lo facciamo a partire dalla nostra fede e dall’appartenenza alla Chiesa, chiedendoci quale sia il contributo che, come discepoli del Signore, possiamo offrire a tutti gli uomini e le donne dell’area mediterranea.

La trasmissione della fede non può che trarre frutto dal patrimonio di cui il Mediterraneo è depositario. È un patrimonio custodito dalle comunità cristiane, reso vivo mediante la catechesi e la celebrazione dei sacramenti, la formazione delle coscienze e l’ascolto personale e comunitario della parola del Signore. In particolare nella pietà popolare l’esperienza cristiana trova un’espressione tanto significativa quanto irrinunciabile: davvero la devozione del popolo è, per lo più, espressione di fede semplice e genuina. E su questo mi piace citare spesso quel gioiello che è il n. 48 dell’Evangelii nuntiandi sulla pietà popolare, dove san Paolo VI cambia il nome di «religiosità» in «pietà», e dove sono presentate le sue ricchezze e anche le sue mancanze. Quel numero deve essere di guida nel nostro annuncio del Vangelo ai popoli.

In quest’area, un deposito di enorme potenzialità è anche quello artistico, che unisce i contenuti della fede alla ricchezza delle culture, alla bellezza delle opere d’arte. È un patrimonio che attrae continuamente milioni di visitatori da tutto il mondo e che va custodito con cura, quale preziosa eredità ricevuta «in prestito» e da consegnare alle generazioni future.

Su questo sfondo l’annuncio del Vangelo non può disgiungersi dall’impegno per il bene comune e ci spinge ad agire come instancabili operatori di pace. Oggi l’area del Mediterraneo è insidiata da tanti focolai di instabilità e di guerra, sia nel Medio Oriente, sia in vari stati del Nord Africa, come pure tra diverse etnie o gruppi religiosi e confessionali; né possiamo dimenticare il conflitto ancora irrisolto tra israeliani e palestinesi, con il pericolo di soluzioni non eque e, quindi, foriere di nuove crisi.

Peccato d’ipocrisia

La guerra, che orienta le risorse all’acquisto di armi e allo sforzo militare, distogliendole dalle funzioni vitali di una società, quali il sostegno alle famiglie, alla sanità e all’istruzione, è contraria alla ragione, secondo l’insegnamento di san Giovanni XXIII (cf. enc. Pacem in terris, nn. 62; 67). In altre parole essa è una follia, perché è folle distruggere case, ponti, fabbriche, ospedali, uccidere persone e annientare risorse anziché costruire relazioni umane ed economiche. È una pazzia alla quale non ci possiamo rassegnare: mai la guerra potrà essere scambiata per normalità o accettata come via ineluttabile per regolare divergenze e interessi contrapposti. Mai.

Il fine ultimo di ogni società umana rimane la pace, tanto che si può ribadire che non c’è alternativa alla pace, per nessuno. Non c’è alcuna alternativa sensata alla pace, perché ogni progetto di sfruttamento e supremazia abbrutisce chi colpisce e chi ne è colpito, e rivela una concezione miope della realtà, dato che priva del futuro non solo l’altro, ma anche sé stessi. La guerra appare così come il fallimento di ogni progetto umano e divino: basta visitare un paesaggio o una città, teatri di un conflitto, per accorgersi come, a causa dell’odio, il giardino si trasformi in una terra desolata e inospitale e il paradiso terrestre in un inferno. E a questo io vorrei aggiungere il grave peccato d’ipocrisia, quando nei convegni internazionali, nelle riunioni, tanti paesi parlano di pace e poi vendono le armi ai paesi che sono in guerra. Questo si chiama la grande ipocrisia.

La costruzione della pace, che la Chiesa e ogni istituzione civile devono sempre sentire come priorità, ha come presupposto indispensabile la giustizia. Essa è calpestata dove sono ignorate le esigenze delle persone e dove gli interessi economici di parte prevalgono sui diritti dei singoli e della comunità. La giustizia è ostacolata, inoltre, dalla cultura dello scarto, che tratta le persone come fossero cose, e che genera e accresce le diseguaglianze, così che in modo stridente sulle sponde dello stesso mare vivono società dell’abbondanza e altre in cui molti lottano per la sopravvivenza.

A contrastare tale cultura contribuiscono in maniera decisiva le innumerevoli opere di carità, di educazione e di formazione attuate dalle comunità cristiane. E ogni volta che le diocesi, le parrocchie, le associazioni, il volontariato – il volontariato è uno dei grandi tesori della pastorale italiana – o i singoli si adoperano per sostenere chi è abbandonato o nel bisogno, il Vangelo acquista nuova forza d’attrazione.

Nel perseguire il bene comune – che è un altro nome della pace – è da assumere il criterio indicato dallo stesso La Pira: lasciarsi guidare dalle «attese della povera gente». Tale principio, che non è mai accantonabile in base a calcoli o a ragioni di convenienza, se assunto in modo serio permette una svolta antropologica radicale, che rende tutti più umani.

A che cosa serve, del resto, una società che raggiunge sempre nuovi risultati tecnologici, ma che diventa meno solidale verso chi è nel bisogno? Con l’annuncio evangelico noi trasmettiamo invece la logica per la quale non ci sono ultimi e ci sforziamo affinché la Chiesa, le Chiese, mediante un impegno sempre più attivo, siano segno dell’attenzione privilegiata per i piccoli e i poveri, perché «quelle membra del corpo che sembrano più deboli, sono più necessarie» (1Cor 12,22) e, «se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme» (1Cor 12,26).

Il fenomeno migratorio

Tra coloro che nell’area del Mediterraneo più faticano, vi sono quanti fuggono dalla guerra o lasciano la loro terra in cerca di una vita degna dell’uomo. Il numero di questi fratelli – costretti ad abbandonare affetti e patria e a esporsi a condizioni di estrema precarietà – è andato aumentando a causa dell’incremento dei conflitti e delle drammatiche condizioni climatiche e ambientali di zone sempre più ampie. È facile prevedere che tale fenomeno, con le sue dinamiche epocali, segnerà la regione mediterranea, per cui gli stati e le stesse comunità religiose non possono farsi trovare impreparati. Sono interessati i paesi attraversati dai flussi migratori e quelli di destinazione finale, ma lo sono anche i governi e le Chiese degli stati di provenienza dei migranti, che con la partenza di tanti giovani vedono depauperarsi il loro futuro.

Siamo consapevoli che in diversi contesti sociali è diffuso un senso d’indifferenza e perfino di rifiuto, che fa pensare all’atteggiamento, stigmatizzato in molte parabole evangeliche, di quanti si chiudono nella propria ricchezza e autonomia, senza accorgersi di chi, con le parole o semplicemente con il suo stato di indigenza, sta invocando aiuto. Si fa strada un senso di paura, che porta ad alzare le proprie difese davanti a quella che viene strumentalmente dipinta come un’invasione. La retorica dello scontro di civiltà serve solo a giustificare la violenza e ad alimentare l’odio. L’inadempienza o, comunque, la debolezza della politica e il settarismo sono cause di radicalismi e terrorismo. La comunità internazionale si è fermata agli interventi militari, mentre dovrebbe costruire istituzioni che garantiscano uguali opportunità e luoghi nei quali i cittadini abbiano la possibilità di farsi carico del bene comune.

A nostra volta, fratelli, alziamo la voce per chiedere ai governi la tutela delle minoranze e della libertà religiosa. La persecuzione di cui sono vittime soprattutto – ma non solo – le comunità cristiane è una ferita che lacera il nostro cuore e non ci può lasciare indifferenti.

Nel contempo, non accettiamo mai che chi cerca speranza per mare muoia senza ricevere soccorso o che chi giunge da lontano diventi vittima di sfruttamento sessuale, sia sottopagato o assoldato dalle mafie.

Certo, l’accoglienza e una dignitosa integrazione sono tappe di un processo non facile; tuttavia è impensabile poterlo affrontare innalzando muri. A me fa paura quando ascolto qualche discorso di alcuni leader delle nuove forme di populismo, e mi fa sentire discorsi che seminavano paura e poi odio nel decennio ’30 del secolo scorso. Questo processo di accoglienza e dignitosa integrazione è impensabile, ho detto, poterlo affrontare innalzando muri. In tale modo, piuttosto, ci si preclude l’accesso alla ricchezza di cui l’altro è portatore e che costituisce sempre un’occasione di crescita.

Quando si rinnega il desiderio di comunione, inscritto nel cuore dell’uomo e nella storia dei popoli, si contrasta il processo di unificazione della famiglia umana, che già si fa strada tra mille avversità. La settimana scorsa un artista torinese mi ha inviato un quadretto, fatto con la tecnica del bruciato sopra il legno, sulla fuga in Egitto e c’era un san Giuseppe, non così tranquillo come siamo abituati a vederlo nelle immaginette, ma un san Giuseppe con l’atteggiamento di un rifugiato siriano, col bambino sulle spalle: fa vedere il dolore, senza addolcire il dramma di Gesù bambino quando dovette fuggire in Egitto. È lo stesso che sta succedendo oggi.

Il Mediterraneo ha una vocazione peculiare in tal senso: è il mare del meticciato, «culturalmente sempre aperto all’incontro, al dialogo e alla reciproca inculturazione». Le purezze delle razze non hanno futuro. Il messaggio del meticciato ci dice tanto. Essere affacciati sul Mediterraneo rappresenta dunque una straordinaria potenzialità: non lasciamo che a causa di uno spirito nazionalistico si diffonda la persuasione contraria, che cioè siano privilegiati gli stati meno raggiungibili e geograficamente più isolati. Solamente il dialogo permette di incontrarsi, di superare pregiudizi e stereotipi, di raccontare e conoscere meglio sé stessi. Il dialogo e quella parola che ho sentito oggi: convivialità.

Elaborare una teologia del dialogo

Una particolare opportunità, a questo riguardo, è rappresentata dalle nuove generazioni, quando è loro assicurato l’accesso alle risorse e sono poste nelle condizioni di diventare protagoniste del loro cammino: allora si rivelano linfa capace di generare futuro e speranza. Tale risultato è possibile solo dove vi sia un’accoglienza non superficiale, ma sincera e benevola, praticata da tutti e a tutti i livelli, sul piano quotidiano delle relazioni interpersonali come su quello politico e istituzionale, e promossa da chi fa cultura e ha una responsabilità più forte nei confronti dell’opinione pubblica.

Per chi crede nel Vangelo, il dialogo non ha semplicemente un valore antropologico, ma anche teologico. Ascoltare il fratello non è solo un atto di carità, ma anche un modo per mettersi in ascolto dello Spirito di Dio, che certamente opera anche nell’altro e parla al di là dei confini in cui spesso siamo tentati di imbrigliare la verità. Conosciamo poi il valore dell’ospitalità: «Alcuni, praticandola, hanno accolto degli angeli senza saperlo» (Eb 13,2).

C’è bisogno di elaborare una teologia dell’accoglienza e del dialogo, che reinterpreti e riproponga l’insegnamento biblico. Può essere elaborata solo se ci si sforza in ogni modo di fare il primo passo e non si escludono i semi di verità di cui anche gli altri sono depositari. In questo modo il confronto tra i contenuti delle diverse fedi potrà riguardare non solo le verità credute, ma temi specifici, che diventano punti qualificanti di tutta la dottrina.

Troppo spesso la storia ha conosciuto contrapposizioni e lotte, fondate sulla distorta persuasione che, contrastando chi non condivide il nostro credo, stiamo difendendo Dio. In realtà estremismi e fondamentalismi negano la dignità dell’uomo e la sua libertà religiosa, causando un declino morale e incentivando una concezione antagonistica dei rapporti umani. È anche per questo che si rende urgente un incontro più vivo tra le diverse fedi religiose, mosso da un sincero rispetto e da un intento di pace.

Tale incontro muove dalla consapevolezza, fissata nel Documento sulla fratellanza firmato ad Abu Dhabi, che «i veri insegnamenti delle religioni invitano a restare ancorati ai valori della pace; a sostenere i valori della reciproca conoscenza, della fratellanza umana e della convivenza comune». Anche attorno al sostegno dei poveri e all’accoglienza dei migranti si può quindi realizzare una più attiva collaborazione tra i gruppi religiosi e le diverse comunità, in modo che il confronto sia animato da intenti comuni e si accompagni a un impegno fattivo. Quanti insieme si sporcano le mani per costruire la pace e praticare l’accoglienza, non potranno più combattersi per motivi di fede, ma percorreranno le vie del confronto rispettoso, della solidarietà reciproca, della ricerca dell’unità. E il contrario è quello che ho sentito quando sono andato a Lampedusa, quell’aria di indifferenza: nell’isola c’era accoglienza, ma poi nel mondo la cultura dell’indifferenza.

Questi sono gli auspici che desidero comunicarvi, cari confratelli, a conclusione del fruttuoso e consolante incontro di questi giorni. Vi affido all’intercessione dell’apostolo Paolo, che per primo ha solcato il Mediterraneo, affrontando pericoli e avversità di ogni genere per portare a tutti il Vangelo di Cristo: il suo esempio vi indichi le vie lungo le quali proseguire il gioioso e liberante impegno di trasmettere la fede nel nostro tempo.

Come mandato, vi consegno le parole del profeta Isaia, perché diano speranza e comunichino forza a voi e alle vostre rispettive comunità. Davanti alla desolazione di Gerusalemme a seguito dell’esilio, il profeta non cessa d’intravedere un futuro di pace e prosperità: «Ricostruiranno le vecchie rovine, rialzeranno gli antichi ruderi, restaureranno le città desolate, devastate da più generazioni» (Is 61,4). Ecco l’opera che il Signore vi affida per questa amata area del Mediterraneo: ricostruire i legami che sono stati interrotti, rialzare le città distrutte dalla violenza, far fiorire un giardino laddove oggi ci sono terreni riarsi, infondere speranza a chi l’ha perduta ed esortare chi è chiuso in sé stesso a non temere il fratello. E guardare questo, che è già diventato cimitero, come un luogo di futura risurrezione di tutta l’area. Il Signore accompagni i vostri passi e benedica la vostra opera di riconciliazione e di pace. Grazie.

 

Francesco

 

Tipo Documento
Tema Francesco Pastorale - Liturgia - Catechesi
Area EUROPA
Nazioni