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Moralia Blog

C’è posto per la morale sui social?

Social media e dibattito morale e antropologico possono coniugarsi in qualche modo? Dentro questa domanda c’è qualcosa di più rispetto alla definizione di un rapporto tra mezzo di comunicazione e contenuto.

C’è – o almeno credo debba esserci – il presupposto che la ricerca accademica sia anche una forma di servizio alla società e alla cultura, e che quindi debba occuparsi di garantire un collegamento tra ricerca specialistica e dibattito pubblico.

Provo a intrecciare qualche spunto di riflessione su tutto questo a partire dall’esperimento che sto conducendo attraverso la serie dei brevi videoclip che pubblico su alcuni dei più noti social media come Facebook e YouTube.

Dalle aule universitarie alle piazze virtuali

La prima osservazione è che la partecipazione attiva al dibattito pubblico è letteralmente migrata dai luoghi fisici più tradizionali di ritrovo alle piazze virtuali.

Pareri e commenti a questioni spesso complesse della vita sociale e politica circolano su Facebook, Twitter e YouTube (meno altrove, per caratteristiche di struttura o di scopo delle piattaforme), mentre alcuni contesti fisiologicamente concepiti per discussioni approfondite si svuotano, in primis – lo dico con rammarico – proprio le università.

Orari di lezioni privi di elasticità e respiro, carenza di aule, procedure organizzative farraginose e un aumento esponenziale delle incombenze compilative dovute alla continua rincorsa a progetti di finanziamento per le ricerche hanno eroso quasi tutti gli spazi gratuiti di confronto. Organizzare anche solo una tavola rotonda è un’impresa che richiede mesi di gestazione, mentre il dibattito pubblico sta assumendo sempre più un carattere on demand, con un ricambio di focus su fatti e opinioni sociali e morali sempre più rapido.

Una via di raccordo tra l’accuratezza degli approfondimenti accademici, che prevede tempi lunghi, e la vivacità dei dibattiti on-line – spesso purtroppo poco informati e superficiali –, che si attivano e tramontano rapidamente proprio attorno a temi morali su cui esiste molta ricerca e competenza universitaria, va probabilmente cercata, e non in modo estemporaneo.

Stare al gioco

Questa via, quale che sia, non può però essere concepita solo come l’introduzione di un nuovo strumento di divulgazione scientifica.

I social media consentono (ma non garantiscono) partecipazione ai dibattiti, ma alle loro condizioni. Di incisività, di brevità, di verve comunicativa, di assiduità, di ritmo, di qualità tecnica e non solo contenutistica degli interventi.

È una sfida notevole per chi si occupa accademicamente di antropologia e morale, perché l’articolo scientifico, il «prodotto» tipico che esprime il nostro lavoro, con le sue minime 20.000 battute non entrerà mai così com’è in quegli spazi.

E naturalmente non si tratta di fare qualche riassunto, come non si tratta di caricare su YouTube la registrazione di 120 minuti di lezione, per quanto brillante possa essere.

Si tratta di stare al gioco, inventando qualcosa di diverso, in cui provare a rinunciare all’esaustività senza concedere troppo alla semplificazione, a intercettare qualche attesa in più senza promettere soluzioni a buon mercato. Qualcosa attraverso cui invitare e invogliare alla riflessione, offrendo insieme – per quanto possibile – chiavi di lettura (antropologiche e morali) già spendibili dentro i micro-dibattiti e piste di lavoro, per inoltrarsi nei temi secondo una logica di approfondimento e non di sostituzione. E magari per procedere fino alla consultazione dei materiali più corposi offerti dalla ricerca accademica.

Chi vivrà...

È certamente presto per dire se l’attivazione del canale YouTube, così come ho immaginato di impostarlo, e la diffusione dei clip via Facebook possa rispondere efficacemente a queste esigenze. Ma va da sé: per una verifica circostanziata dell’esperimento ci vorrà del tempo e magari uno studio scientifico... di almeno 20.000 battute!

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