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Moralia Blog

De-moralizzati. Della cura della vita che resta?

Che significa oggi prendersi cura della vita? Tante notizie di questi giorni spingono a porsi la domanda.

Penso alla diciassettenne olandese Noa Pothoven, che sceglie di lasciarsi morire di fame, non riuscendo più a sopportare la sofferenza per le ripetute violenze subite anni prima.

Un evento che a chi scrive appare drammatico, ma che tale non sembra ai media olandesi, assuefatti a una cultura giuridica che legittima ormai un vasto spettro di pratiche di conclusione della vita. Il dolore per chi ha posto fine alla propria esistenza, evidentemente percepita come insostenibile, s’intreccia con l’inquietudine per un contesto culturale distratto o forse cinico.

Penso, d’altra parte, al rapinatore Ion Stavila, ucciso in Italia da un colpo di fucile, in circostanze che sembrano rendere dubbio si possa parlare di legittima difesa – anzi, di difesa tout court –. Quale idea di sicurezza, quale percezione del rapporto tra valore della vita e tutela dei beni economici sta dietro episodi del genere? Si fa strada forse l’idea che la violazione del diritto alla proprietà legittimi qualunque azione contro gli autori del gesto? Siamo persino al di là dell’antico «occhio per occhio dente per dente», non certo espressione di una coscienza morale avvertita.

Ma penso – ancora di più – a una dinamica meno immediatamente cruenta, ma assai più gravida di conseguenze letali. Mi riferisco all’imporsi di normative sempre più dure nei confronti dei soggetti che operano per salvare vite in mare.

La volontà di respingere a ogni costo chi cerca sicurezza in Europa porta a considerare criminali e meritevoli di punizione comportamenti che uno sguardo morale non potrebbe che considerare come generose espressioni di solidarietà.

Ritrovare sé stessi

Eventi e contesti diversi, ma convergenti nel disegnare un quadro in cui la stessa idea di cura appare sempre più marginale, confinata all’ambito delle relazioni più corte, da esorcizzare quando si cerchi di metterla in opera altrove.

Non stupisce allora – ed è l’ultimo evento rivelatore da cui lasciarsi interrogare – che possa essere percepita come provocatoria anche una frase come «Ama il prossimo tuo come te stesso», e che basti esibirla per essere considerati fattori di disturbo, da allontanare con la violenza.

Se un anno fa segnalavamo la progressiva, subdola emarginazione della figura del Samaritano dal nostro immaginario, oggi sembra che in tali episodi la dinamica divenga esplicita, condensandosi nell’opposizione alla frase cui la stessa parabola del Samaritano fa da commento.

Resistere attivamente – con un civile agire culturale – a una simile tendenza non è indebita invasione del campo politico da parte dell’etica, ma al contrario richiamo a quell’esperienza fondamentale che innerva gran parte della sapienza morale elaborata da culture e religioni diverse. Una sapienza morale cui l’Occidente ha un disperato bisogno di tonare ad attingere, quale centro focale del proprio essere e della propria vita civile.

 

Simone Morandini è coordinatore del progetto «Etica, teologia, filosofia» della Fondazione Lanza e insegna all’Istituto di studi ecumenici San Bernardino di Venezia; è coordinatore del blog Moralia.

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