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Moralia Blog

Gita scolastica: il viaggio comincia prima

Recenti e drammatici fatti di cronaca hanno riportato alla ribalta dei media la questione delle “gite scolastiche” (o meglio: “viaggi di istruzione” ma chiamiamole “gita” per semplicità), tema che, invece, per chi come me insegna quotidianamente alla scuola secondaria, è oggetto di discussione (e decisione) assai più frequente. Nell’arco di pochi mesi (da maggio a ottobre) tre adolescenti sono morti in Italia durante il viaggio di istruzione, alimentando la discussione sulla sicurezza durante tali esperienze scolastiche.

Dichiaro subito che faccio parte di quegli insegnanti che normalmente accompagnano i ragazzi in tali esperienze. Ma capisco pienamente i colleghi che non accettano a priori. La responsabilità è enorme: su di noi grava un obbligo di vigilanza per 15 studenti, 24 ore su 24, oltre che un obbligo di diligenza preventivo, come ha stabilito la Corte di cassazione (con la sentenza n. 1769/2012). Inoltre le ore di lavoro – maggiori di quelle che si farebbero in classe – non sono retribuite (anzi andare in gita ci costa economicamente qualcosa). Ma non sarebbe certo una diaria a convincere la maggior parte dei colleghi (la soluzione non starebbe neppure nella ventilata ipotesi di rendere obbligatorio, per noi docenti, l’accompagnamento dei ragazzi in gita – soluzione che solleva altre questioni etiche). Il tema della sicurezza è indubbiamente una questione di primo piano. Tema serio. Ma non è l’unico.

Ryszard Kapuscinski affermava che «Un viaggio non inizia nel momento in cui partiamo né finisce nel momento in cui raggiungiamo la meta. In realtà comincia molto prima e non finisce mai, dato che il nastro dei ricordi continua a scorrerci dentro anche dopo che ci siamo fermati». In qualche modo è in questa affermazione che rintraccio le motivazioni, e i valori ad esse connesse, per cui accetto di accompagnare i ragazzi in “gita”.

Innanzi tutto quel “nastro dei ricordi” che ha impresse le mie gite scolastiche da studentessa mi fa ragionare in termini di “riconoscenza” verso i miei insegnanti e di “impegno” verso i miei studenti. È la stessa dinamica morale con cui vivo la tradizione: gratitudine verso il passato e responsabilità verso il futuro.

In secondo luogo credo fermamente che la gita sia un’ottima occasione per educare all’autonomia e alla responsabilità (alla relazione, alla cultura, alla memoria…) dei ragazzi, atteggiamenti che ovviamente “non iniziano nel momento in cui partiamo, né finiscono nel momento in cui raggiungiamo la meta”. In altre parole: la gita è solo il momento “straordinario” del nostro “ordinario” quotidiano, dello stile che coltiviamo giorno per giorno, prima e dopo il viaggio.

E questo vale anche per la scelta della meta e le sue ricadute didattiche: non si sceglie la meta perché è di moda, perché è comoda, perché ci piace un determinato luogo. La destinazione è parte integrante di un discorso didattico che coinvolge i contenuti ma anche il metodo di apprendimento, sempre più interdisciplinare ed esperienziale (ecco perché prepariamo prima la gita e in seguito chiediamo anche dei resoconti che possono modularsi in diverse attività).

Il tema della sicurezza arriva così al terzo posto nella mia gerarchia dei valori con cui scelgo se portare in gita una determinata classe oppure un’altra (o addirittura di non portare in gita nessuno per quel determinato anno scolastico). E, come detto prima, non è fuori casa che posso immaginarmi un comportamento adeguato se prima non è stato introdotto in classe. Al contrario: sappiamo bene che fuori casa i ragazzi, anche i più tranquilli, tendono a “lasciarsi andare” e che le dinamiche di gruppo sono diverse dalle dinamiche personali. Ma su questo punto si potrebbe innestare un’importante riflessione sull’alleanza educativa famiglia-scuola (e volutamente scrivo ‘famiglia-scuola’ e non, come comunemente si dice, ‘scuola-famiglia’).  

La “gita scolastica” è quindi un ulteriore esempio del nostro impegno etico quotidiano. In tal senso è stata redatta anche una “Carta etica del turismo scolastico”: non è un'esperienza che si può improvvisare.

Da insegnante e da moralista concludo sottoscrivendo un pensiero di Voltaire: “È ben difficile, in geografia come in morale, capire il mondo senza uscire di casa propria”. 

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