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Moralia Blog

Guerra totale? Effetto Stranamore

Di fronte al riemergere del linguaggio della distruzione totale dell'avversario nel lessico della politica internazionale la morale non può, allora, che invitare ad altre parole.

Moralia | Una collaborazione dell'Associazione teologica italiana per lo studio della morale (ATISM) con Il Regno.

Lettera dal fronte

«Il conflitto raggiunge livelli senza precedenti, in un'escalation che non si arresta di fronte a nessuna opzione». Per fortuna a queste espressioni non segue nessuna lista di morti o di danni; è solo la descrizione di un duraturo scontro verbale - quello tra il presidente di una delle maggiori nazioni mondiali ed il leader di una potenza locale (che in realtà solo sul versante militare sembra avere risorse disponibili).

Solo verbale, ma in esso sono state messe in campo parole che speravamo consegnate all'oblio dopo la fine della guerra fredda. La minaccia di utilizzare – magari anche a breve scadenza – bombe nucleari reintroduce, infatti, nel lessico della politica internazionale il linguaggio della distruzione totale dell'avversario, che negli ultimi anni era legato soprattutto alla follia del terrorismo dell'ISIS. Ora invece esso rientra nella gamma delle opzioni praticabili da parte di realtà statuali, quale razionale conseguenza di un confronto tra opposte logiche di potenza, nessuna delle quali intende arrestarsi.

Già solo le parole, insomma, modificano il tessuto della convivenza internazionale, degradandolo profondamente. Passa in secondo piano l'impegno condiviso per il perseguimento degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile o per il contenimento del mutamento climatico (si pensi agli accordi di Parigi 2015); ad esso subentra il linguaggio della contrapposizione, della volontà di potenza che nessun limite accetta per la propria espressione.

Altre parole

Sembra difficile pronunciare sensatamente parole morali in un contesto che priva di significato anche i valori fondamentali (la vita, il rispetto dei civili...). Tornano a mente soltanto le espressioni di Giovanni XXIII (che infelicemente in questi giorni si vuole associare all'esperienza militare). Oltre mezzo secolo fa, al n.67 della sua ultima enciclica, la Pacem in terris dell'11 aprile 1963, egli fa dichiarava solennemente che

«In questa nostra era, che si gloria della forza atomica, appare totalmente irrazionale che la guerra possa essere strumento adeguato al ristabilimento di diritti violati» (traduzione dal testo ufficiale latino, purtroppo significativamente indebolito dalla versione italiana).

Nessun diritto, nessuna motivazione può in tale prospettiva conferire legittimità morale all'uso di armi di distruzione di massa; non c'è difesa moralmente accettabile quando lo strumento messo in campo determina danni a persone e cose di tale portata; tantomeno quando non vi siano attacchi in atto. La guerra nucleare è sempre illegittima, chiunque la scateni e con qualsiasi motivazione.

La forza debole della morale non può, allora, che invitare ad altre parole, dai toni più bassi. Non può che richiamare al valore incommensurabile della pace, da costruirsi con ogni mezzo. Non può che ricordare la fecondità della mediazione, anche tra soggetti a prima vista insuperabilmente ostili. In realtà, anzi, essa si azzarda ad affermare che la stessa categoria di nemico va decostruita: a differenza di quanto insegnato da certa politologia, non esistono conflitti totali, che non ammettano mosse laterali, di aggiramento della conflittualità stessa.

L'alternativa è quella disegnata - proprio negli stessi anni della Pacem in terris - da un grande regista come Stanley Kubrik nel suo Il dottor Stranamore: tornare a vivere nell'ombra della Bomba, condizionati dalla sua presenza, dal costante timore che qualche catena di eventi - razionalmente connessi eppure del tutto folli - possa portare al suo utilizzo

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