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Moralia Blog

Identità e violenza / identità è violenza?

Difficile leggere questo nostro tempo, alla luce di quanto narratoci dai quotidiani di questi ultimi giorni, senza farsi prendere da una sensazione di sconforto. Tanti e drammatici gli episodi di brutale violenza che abbiamo visto scorrere dinanzi a noi – come i fotogrammi di un film pulp così eccessivo da non sembrare neppure vero.

 

Un mosaico inquietante

L’attentato di Dacca e quello di Bagdad pochi giorni dopo, con le tante morti che essi hanno portato con sè; il brutale pestaggio di Emanuel, che a Fermo cercava speranza dopo un viaggio drammatico; gli omicidi di cinque agenti di polizia a Dallas dopo il comportamento altrettanto brutale nei confronti di un nero da parte della polizia… e sono solo alcuni eventi, più recenti.

Episodi tra loro profondamente diversi e scollegati, ma che sembrano anche come tante tessere, che disegnano un mosaico dalla figura inquietante. La trama che ne emerge – da esse come da tanti altri analoghi episodi – è segnata dallo scontro tra identità diverse, come se esse non potessero accostarsi che nel segno della contrapposizione e della violenza. C’è un discorso dell’odio che assume forme diverse, ma tutte velenose e pronte ad infiltrarsi persino in sentimenti nobili come la solidarietà.

Non è neppure lo scontro di civiltà di cui parlava S.Huntington due decenni fa: ormai gli attriti tra le differenze non sono più soltanto lungo linee di faglia culturale ben definite, ma attraversano la quotidianità di persone e comunità. Tensioni mai sanate nei decenni precedenti vengono così ad intrecciarsi con le dinamiche di una globalizzazione che colloca tutte le identità le une alla presenza delle altre, costringendole a trovare forme di rapporto. E la risposta purtroppo in molti casi si chiama morte… davvero viene da far nostro il canto desolato di Chimiary, la moglie di Emanuel: «Dio dove sei?».

Ma che fare? Come agire moralmente per evitare tali situazioni? Forse dovremmo tornare a separarci? Dovremmo ricreare distanze che evitino l’incontro e così immunizzino contro la violenza stessa? La tentazione di una simile prospettiva è forte ed è facile cedervi (si pensi ai richiami del candidato alla presidenza USA Donald Trump ed ai suoi tristi epigoni italiani), ma in realtà è proprio per essa che operano molti degli attori degli episodi citati: per ricostruire un mondo in cui le identità siano forti, ben delineate e collocate a reciproca distanza. Una prospettiva, però, che non mira davvero al contenimento della violenza; è piuttosto la rinuncia a combatterla, che anzi la accetta come inevitabile e si attrezza per la guerra, mobilitando in tal senso le stesse identità. 

Altre figure

Esistono, però, anche prospettive diverse, in cui esse non sono necessariamente rigidi fattori di contrapposizione, ma vengono invece fatte operare come capacità di apertura, di disponibilità all’incontro con l’alterità. Essere Parigi e Bruxelles, essere Charlie Ebdo ed Orlando: a questo siamo stati invitati su Facebook in occasione dei corrispondenti episodi di violenza … e tanti hanno risposto.

Aldilà dell’emotività di cui si riveste un simile gesto e delle immagini che lo accompagnano, la sfida è quella di dire la propria identità nel segno dell’apertura e della solidarietà, di dirla in modo plurale. Ma non è forse solo un sogno da realtà virtuale? Non è una possibilità che può vivere solo nel mondo ovattato della Rete?

Eppure proprio anche al cuore di uno degli episodi che più hanno ferito il nostro cuore troviamo una dinamica di segno analogo ed anzi molto più radicale. Ci riferiamo al gesto dello studente musulmano Fraaz Hossain, la cui conoscenza del Corano lo avrebbe messo al riparo dalla violenza dei terroristi di Dacca, ma che non ha voluto abbandonare ad essi le sue amiche «troppo occidentali». Qui il gesto solidale è radicale: dice di una disponibilità a morire perché l’altro – un altro che non condivide se non in parte l’identità di cui il soggetto è portatore – non resti solo dinanzi alla violenza.

Aldilà delle culture e delle appartenenze si rivela qui il cuore umano dell’identità: nel gesto del farsi prossimo, non per dare la morte, ma semmai per condividerla con chi da essa è minacciato. Il gesto di Fraaz Hossain, in effetti, non ha potuto salvare nessuno dalla morte, ma l’eredità che ci lascia è preziosa: un ricordo benedetto; l’indicazione di una via di pace; la testimonianza di una possibilità per un futuro diverso. 

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