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Moralia Blog

Regolare la maternità surrogata?

Il Gruppo di riflessione bioetica della Commissione degli episcopati della Comunità europea (COMECE) ha pubblicato a febbraio un documento sulla gestazione surrogata (il cosiddetto “utero in affitto”), oggetto di un vivace dibattito in senso all’Unione Europea e già regolamentata per legge in Inghilterra e in Grecia. La prassi consiste nell’affittare (o, a volte, solo concedere a titolo di gratuità) il proprio utero per ospitarvi un embrione concepito con una tecnica di procreazione assistita.

Le principali motivazioni sono: assenza dell’utero nella donna “committente”, coppia di omosessuali maschi, voluttuarietà nel rifiuto di condurre la gestazione. Anche se le diverse motivazioni pongono alcune sfumature nella diversificazione del giudizio morale, esse sono, di fatto, accomunate da alcune considerazioni.

La prima riguarda la dissociazione che si pone tra la madre genetica e la madre uterina. È vero che il legame affettivo con la madre non deve essere necessariamente di natura biologica (basti pensare all’adozione) ma, nell’ambito di quello biologico, chi è la “vera” madre del bambino: chi da dato il suo gamete o chi l’ha partorito? È esperienza comune di ogni madre, prima ancora che oggetto della riflessione etica, il profondissimo e insostituibile legame che si crea nei nove mesi di attesa e che il padre può comprendere ma certamente non condividere né sperimentare. Mesi di ansie, disagi fisici, preoccupazioni, proiezioni esistenziali, mutamenti corporei finalizzati all’evento nascita che verrebbe in questo caso totalmente espropriato alla gestante. È talmente radicato nell’antropologia e nella fenomenologia tale processo, che il termine “ostetrica” (dal latino ob-stare) indica propriamente colei che “sta a guardare”, perché è quello l’evento decisivo che storicamente muta lo status della donna in madre. Persino giuridicamente la certificazione della nascita deve essere compilata da chi materialmente può garantire di aver assistito all’evento.

Da parte del figlio, poi, di ogni figlio, il legame affettivo che si determina e si sviluppa è proprio con chi ci ha generato (o, nel caso dell’adozione, con chi ci ha accolti), non certo con i gameti da cui proveniamo! In questo paradossale caso, invece, la madre “uterina” avrebbe un ruolo assolutamente marginale, una sorta di incubatrice vivente e niente più.

Si aggiungano a queste le implicanze di una maternità surrogata che non sia “altruistica” ma mercenaria, soprattutto in aree del mondo in cui le donne potrebbero trovare in questo un’attività maggiormente remunerata e, quasi, co-onestata da una maggiore nobiltà di fine rispetto all’esercizio della prostituzione.

Dicevo prima che le situazioni andrebbero differenziate: altro è una prassi puramente voluttuaria, per quanto credo ancora rara, di chi voglia avere un figlio senza il fastidio della gravidanza, altra quella di chi “non può averla” per l’assenza dell’utero e magari ricorre, senza alcun interesse economico da parte della donatrice, all’utero della madre o della sorella. Ma tutto questo, per certi, versi complica ulteriormente le cose, anziché legittimarle sul piano morale perché si creerebbe uno strano ibrido di nonna-madre o sorella-madre che stabilirebbe un particolare legame affettivo nei confronti del bambino quasi “competitivo” con quello della madre genetica.

In ogni caso e ancora una volta, tutto questo pone l’accento sul problema del “diritto al figlio” preteso e difeso giuridicamente, ma di per sé insussistente: nessuno essere umano può essere oggetto di un diritto altrui. Significherebbe legittimare, nei mutati termini della contemporaneità, la logica dello schiavitù.

Salvino Leone

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