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Moralia Blog

Si può essere educatori neutrali?

Il titolo può far confondere, ma la questione oggi è rovente: che vuol dire oggi neutralità in campo educativo? Anzi: chi azzarderebbe di non essere neutrale avendo paura di apparire di parte, politicamente scorretto, nel processo formativo?

Impossibile neutralità

Noi vogliamo sostenere che quanto si afferma teoricamente non ha alcun riscontro nella pratica educativa, perché si può parlare di educazione solo a partire da una verità dell’educatore. Vi è, cioè, un retro-mondo dell’educatore, che inevitabilmente influenza l’approccio all’educando. Già il riconoscerlo non sarebbe di poco conto, se pensiamo che il tentativo di azzerare l’azione “educativa” sino a trasformarla solo in “informativa” si scontra con questo dato che non si vuole accettare.

Oggi la pretesa di neutralità è una delle cause della polverizzazione dell’azione educativa, in quanto l’azione educativa è una relazione, gravida della verità posseduta dall’educatore. L’educatore è semplicemente, ma non banalmente, colui che è capace di stabilire una relazione vera con l’educando: questo è il punto di partenza e il cuore pulsante che irrora ogni sua azione e decisione. Nessuna relazione si può dire educativa senza la verità o senza una verità, e la prima verità della cosa o di qualsiasi cosa è la propria e personale verità della cosa stessa. Pertanto, chi pretende una neutralità perverte l’azione educativa operando un riduzionismo svuotante.

Luoghi da cui partire

L’influenza dell’approccio al tema da parte di una verità che lo innerva non implica, tuttavia, la rinuncia alla speranza di stabilire almeno alcune conclusioni ragionevoli. Crediamo, invece, che la neutralità in ogni campo sia irragionevole perché u-topica: si deve partire da qualche parte, da qualche luogo (prospettiva topica e non u-topica). Non esiste uno sguardo da nessun luogo (questa è la vera utopia)!

Qui per il momento non entriamo nel merito del luogo da cui guardare per iniziare a educare ai valori. Ci interessa per il momento concentrarci sul metodo, perché ci sembra un passaggio cruciale per l’epoca che stiamo vivendo, e lo facciamo guardando alla storia.  La tradizione della Chiesa ci offre un modello nel grande teologo e filosofo medievale, Anselmo di Canterbury, che immerso nelle controversie teologiche con gli ebrei e i musulmani del tempo cerca il denominatore comune delle loro religioni e ingaggia una discussione con questi interlocutori prescindendo metodologicamente dal messaggio cristiano.

Questa metodologia è sintetizzata nell’espressione remoto Christo. Attenzione: non sine Christo, ma remoto Christo, perché questo grande dottore della Chiesa non ci chiede di rinunciare a una verità, come oggi si crede necessario per una political correctness, ma di porla così al centro della nostra vita da non averne la necessità di estrofletterla chiamandola in causa come scudo. Quante volte la non riuscita di un’azione educativa dipende proprio dal nostro zelo a esibire questa verità?

La persona al centro

Non solo sant’Anselmo, ma anche un pensatore non cristiano ne aveva già capito l’importanza. Nel III libro del De ira, Seneca scrive: «Per il futuro rifletti non solo se è vero quello che dici, ma se è tollerante della verità colui al quale lo dici». Quante volte diamo peso al contenuto della verità di cui siamo portatori e poco alla persona cui ci rivolgiamo?

 

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