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Moralia Blog

Tornare a morire stringendo una mano

«I libri sono puri, gli uomini sono compositi, i libri sono spirito e parola, puro spirito e parola purificata, gli uomini sono una combinazione di chiacchiere e silenzio… Non ne sapevo nulla di libri quando sono nato dal grembo di mia madre, e voglio morire senza libri, stringendo una mano». Così scrive Martin Buber nell’opera Il problema dell’uomo, forse non a caso pubblicato nel 1943 in pieno conflitto mondiale. Perché le situazioni storiche ispirano le riflessioni e in tempo di guerra l’uomo capisce che morire in solitudine è davvero triste.

In questi mesi abbiamo assistito a persone che entrate in ospedale hanno vissuto in solitudine gli ultimi loro giorni, isolati dagli affetti più cari, senza mani da stringere. Oppure possiamo anche pensare alle tante morti avvenute nelle nostre RSA. Anziani che rimasti contagiati, si sono spenti senza poter più avere accanto a sé i loro cari.

Quello che è accaduto con le numerose morti nelle RSA mi ha fatto riflettere al rapporto tra generazioni. Un tempo gli anziani morivano in casa circondati dagli affetti più cari. Anche i nipotini imparavano che la morte era parte della vita. Il chicco di grano che porta frutto è quello che si dona e poi muore. Così accanto al nonno che spirava c’era tutta la famiglia, segno visibile del portare frutto.

È più recente l’aumento di persone che vengono ricoverate in luoghi dove accuditi da un preparato personale sanitario, ma ormai non più dentro la famiglia, vivono l’ultimo tratto del cammino. Dietro all’aumento del numero di persone che concludono i loro giorni in queste strutture hanno giocato tanti fattori. Talora la scelta è l’obbligo perché le problematiche di salute rendono impossibili ai famigliari una cura domestica che si concili con i ritmi di vita (lavoro, famiglia).

Solidarietà tra generazioni: una domanda etica

Eppure la domanda etica che si pone parte da una considerazione che troviamo nell’enciclica Laudato si’, laddove troviamo scritto: «ormai non si può parlare di “sviluppo sostenibile” senza una solidarietà fra le generazioni» (LS 159). Sorge il dubbio che l’aumento di ricoveri nelle RSA sia dovuto anche (non solo naturalmente) all’indebolimento del rapporto tra le generazioni. Un anziano malato diventa un grosso impegno per i famigliari. La soluzione di farlo ricoverare in una struttura dove può ricevere le cure adeguate può apparire quella risolutiva. Ma il lato che sempre resta problematico che noi siamo costituiti dalle nostre relazioni. In certi casi il ricovero può divenire uno sradicamento doloroso.

Vorrei portare due esempi che ho seguito da vicino e che mi hanno molto edificato.

Il primo è quello di don Gianfranco: era un prete che per tanti anni a Sesto San Giovanni era stato parroco tra la «sua» gente. Quando la salute non lo ha più reso capace di accudirsi da sé, il suo vicario – don Paolo – ha voluto fermamente che fosse curato lì nella casa dove aveva speso gli ultimi anni del ministero. Don Paolo mi disse: «Qui ci sono le persone che lui conosce e che hanno con lui un legame profondo». Dietro questa scelta, decisamente impegnativa, c’era anche tutta la riconoscenza per il bene fatto. Il gran caldo del mese di luglio, insopportabile per don Gianfranco, portò alla scelta di ricoverarlo in una struttura trovata anche grazie all’Opera Aiuto Fraterno, ma appena giunto la salute precipitò e morì in breve tempo. La sua presenza, anche nella malattia, fu balsamo per tante persone che lo avevano conosciuto e apprezzato.

Il secondo esempio è di questi giorni: Costanza è morta tra le braccia delle due figlie, accudita fino all’ultimo dal marito Pietro e dai famigliari. Una storia di una malattia degenerativa che per otto anni ha accompagnato l’esistenza di questa donna. Il marito sul suo blog, appena morta la moglie ha scritto parole che non chiedono grandi commenti: «Pian piano, mi sono accorto dei tesori che questa situazione nascondeva. Mi ero impegnato a essere per Costanza le gambe che aveva perduto, gli occhi al posto dei suoi che non funzionavano più, e nell’ultimo periodo anche le braccia e le mani per lavarsi, pettinarsi, vestirsi, portare il cibo alla bocca; questo ben presto ha creato tra me e lei, dopo 45 anni di matrimonio, un’intimità che non avevamo mai vissuto».

La vita è anzitutto questione di legami e le relazioni sono vitali anche nei tratti finali dell’esistenza. Avere i propri cari vicini è importante per tutti. Forse il COVID-19 ci porta a ripensare la solidarietà tra le generazioni anche in questa direzione e ci chiede di ragionare su come prenderci cura dei nostri anziani. Quale alleanza tra generazioni?

Forse, da questa esperienza impareremo anche a riflettere sul ruolo delle nostre RSA e sull’uso del tempo e sul fatto che vivere e morire stringendo una mano ha a che fare con l’etica più di quanto si possa immaginare.

 

Walter Magnoni, responsabile Pastorale Sociale e Lavoro presso Arcidiocesi di Milano.

Commenti

  • 29/05/2020 Sara Grella

    Condivido appieno la sua riflessione. Uno dei problemi che la nostra società e le generazioni future si trovano ad affrontare è proprio questo: la gestione dell’assistenza ad anziani che, insieme ai bambini, rappresentano i due estremi umani che hanno bisogno di assistenza. La propria famiglia è pur sempre la propria famiglia e la salute, più si avanza con l’età più è legata all’affetto e all’amore dei propri cari. Purtroppo il lavoro tiene tutti troppo spesso fuori casa dalla mattina alla sera ed è difficile prendersi cura di chi invece ci resta. Prima di decidere a chi e se affidare una persona cara alle cure di altri, bisogna tener conto di diversi aspetti. Ci sono anziani che nelle RSA si deprimono e si lasciano morire; altri, invece, trovandosi in luoghi dov’è possibile socializzare, rinascono. A questo punto credo che la scelta di accudire o meno un anziano in famiglia sia da valutare situazione per situazione e credo anche che sia fuori discussione che la propria casa è pur sempre la propria casa.

  • 27/05/2020 Paolo Alessandro Bonazzi

    Ben scritto caro don Walter. Va anche detto però gli anziani campavano assai meno e assai peggio, come tutta l’umanità. Oggi abbiamo persone di 60 e piu anni che anziché godersi la pensione (e spesso, direi, giustamente, salvo il caso dei lavori usuranti) lavorano e accudiscono gli anziani. Qualche soldo o casetta di famiglia se va bene la erediteranno dai nonni i loro nipoti, cioè i figli di questa generazione “allungata” che lavora più a lungo e assiste contemporaneamente anziani che campano a lungo e figli precari o disoccupati. Tutto questo per dire che va effettivamente rivalutata la famiglia nel suo complesso, cosa difficile quando il lavoro non è dove sei nato e vorresti vivere. La coesione sociale passa per una ridiffusione delle possibilità di lavoro. Altrimenti la famiglia non tiene.

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