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Moralia Blog

Una morale narrata. È ancora possibile?

L’insegnamento morale della Chiesa è – da sempre – felicemente esprimibile in termini narrativi, sia perché rinvia alle cose che furono e alle cose che verranno (cioè all’origine e alla fine) in maniera coerente e intellegibile, sia perché riformulare i contenuti normativi della morale in chiave narrativa rende più evidente il nesso fra le norme morali e l’identità di battezzato. Ma che cosa significa riesprimere i contenuti morali in modo narrativo?

L’insegnamento morale della Chiesa è – da sempre – felicemente esprimibile in termini narrativi, sia perché rinvia alle cose che furono e alle cose che verranno (cioè all’origine e alla fine) in maniera coerente e intellegibile, sia perché riformulare i contenuti normativi della morale in chiave narrativa rende più evidente il nesso fra le norme morali e l’identità di battezzato. Ma che cosa significa riesprimere i contenuti morali in modo narrativo? Molte cose: riproporre la narrazione di vite esemplari vissute in fedeltà al Vangelo fino alla fine; usare il linguaggio letterario per esprimere le verità della condizione umana e la serietà delle interpellanze morali; riflettere insieme sui dilemmi morali della quotidianità; testimoniare alla storia la presenza e l’azione della comunità dei battezzati; mostrare nei fatti l’attuabilità di norme esigenti, ma mai impraticabili.

… È ancora possibile?

Tuttavia, la narrazione cristiana nel suo insieme si è recentemente affievolita per varie ragioni: l’enfasi talora eccessiva più sulle norme che sull’identità cristiana; il tramonto delle grandi narrazioni nella post-postmodernità e del loro ruolo di «funzione maggiore», come direbbe Bellet, cioè di sistema di riferimento nella vita delle persone; la tendenza individuale a utilizzare singoli pezzi delle grandi narrazioni del recente passato per costruire una propria identità, adattabile a contesti in cui, secondo Boewe, nessun individuo è più solo osservatore, ma sempre e solo partecipante.

Due accorgimenti pedagogici

In un simile contesto culturale – che dal punto di vista etico potremmo definire, con MacIntyre, post-disastro – quali accorgimenti pedagogici possono rivelarsi utili per l’educatore cristiano? Mi soffermo su due in particolare: in primo luogo, il ripristino di un «discorso sul bene» che ponga in risalto il valore dell’indagine sul bene umano, in un processo che non preveda solo una via autoritativa, come auspicava già K. Wojtyła nei lavori del Concilio, ma che si affidi alla forza della verità sul bene connaturata alla coscienza.    

In secondo luogo, la valorizzazione dell’esperienza morale originaria del soggetto – che è la generazione del bene e il continuo auto-superamento verso versioni sempre più perfette del sé. 

Un’azione pedagogica così disegnata si colloca pienamente nel disegno pastorale di papa Francesco, molto attento a riproporre la centralità del kerygma – su cui si innesta la morale – e fiducioso che, nell’accoglienza dell’annuncio del Vangelo, ognuno ha l’opportunità di situare la propria vita, fatta spesso di segmenti e frammenti spezzati e talora persino casuali, nella coerenza e nell’intelligibilità nuova di una storia già scritta e più grande: quella della salvezza.

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