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Moralia Dialoghi

Dinanzi alla teologia

 La difficoltà a rispondere

Mentre ringrazio per l’invito a partecipare a questa iniziativa e dichiaro il mio apprezzamento per essa, devo contestualmente anche sottolineare il mio imbarazzo, per una pluralità di motivi che cerco ora di elencare. Anzitutto, e soprattutto, non sono né mi considero un moralista. Non soltanto perché, sotto il profilo delle appartenenze disciplinari, il mio settore di ricerca non coincide con l’ambito della morale. Ma anche perché, dal punto di vista dei temi di riflessione, ho finora solo sfiorato le tematiche pertinenti alla filosofia morale, senza avere la pretesa di pronunciarmi su argomenti che ho toccato solo sommariamente. Si spiega anche così la mia scarsa dimestichezza con il dibattito in corso fra teologi e studiosi di morale, del quale tuttavia percepisco solo l’eco, pur senza poterne approfondire l’andamento.

Due modi di concepire la teologia

Mi limito quindi a qualche cenno – non, dunque, a vere e proprie risposte – relativo agli interrogativi proposti a partire da un riferimento a quella che a me pare essere una questione di fondo. Essa riguarda quello che a buon diritto ritengo possa essere considerato lo statuto teorico–epistemologico della teologia. In termini molto schematici, e scusandomi per la rozzezza, colgo – soprattutto da alcuni anni – una possibile divaricazione fra due modalità molto diverse di concepire la stessa teologia.

Da un lato, infatti, essa si presenta come discorso “di Dio”, come riflessione sul contenuto della Rivelazione. Dall’altro, invece, essa si declina come discorso “su Dio”, e cioè come tentativo di “dire” Dio, di parlare di Lui, di descriverne le caratteristiche, renderlo in ogni caso oggetto di un discorso. E mentre mi sento molto interessato e coinvolto – dal punto di vista culturale e filosofico – dal primo modo di concepire la teologia, sono refrattario e perfino diffidente circa la possibilità di intendere la teologia come riflessione che assuma Dio come contenuto.

Così, tanto per citare qualche esempio, mentre ritengo che – indipendentemente da opzioni personali di fede – sia ineludibile il confronto con i testi del Primo e del Secondo Testamento, non riesco a provare altrettanto interesse per i tentativi di costruire un sapere che positivamente pretenda di “dire” Dio. Insomma, trovo fondamentale (per certi versi insuperabile) la conclusione del libro di Giobbe – la “dotta” rinuncia a voler capire quale sia la concezione della giustizia che è alla base delle azioni di Dio – mentre non mi ritrovo nella forma di teologia messa in campo dagli amici di Giobbe, che vorrebbero tutto “spiegare”, pretendendo di poter compiutamente comprendere i moventi delle scelte divine.

Oltre le contrapposizioni

Solo qualche considerazione, invece, direttamente rivolta ai quesiti postimi circa la teologia morale cattolica.

Mi pare sia innegabile l’influenza spesso rilevante e comunque mai trascurabile, della teologia morale cattolica nel dibattito in corso, specie su temi sensibili dal punto di vista bioetico. Se mi è consentita un’osservazione, che è al tempo stesso superficiale e scontata, spiace dover constatare che, almeno sul piano della comunicazione di massa, le opzioni messe in campo sembrano per lo più essere ispirate dalla volontà di correggere, censurare o criticare le posizioni “laiche” – in tema di fine vita o di fecondazione artificiale – piuttosto che proiettate a costruire un comune terreno di riferimento teorico. Un atteggiamento, questo, che concorre in maniera spesso decisiva a creare o alimentare contrapposizioni – a cominciare da quella che io giudico insensata, fra “credenti” e “non credenti” – anziché cercare fruttuosi momenti di intesa e punti di contatto.

Da parte mia ho invece cercato più volte – in sedi e con modalità diverse – di argomentare il mio dissenso rispetto all’uso di tale distinzione assiomatica fra credenti e non credenti. Affinché tale schema – cui abitualmente si ricorre – avesse un senso, sarebbe necessario poter designare i due termini come “stati”, almeno relativamente stabili, tali da contrassegnare “posizioni” diverse e descrivibili in termini analitici. Dubito invece fortemente che quello di essere credente possa essere qualificato come uno “stato”, come tale capace di escludere il suo contrario. Se è vero – secondo la mia convinzione – che ciò che caratterizza la fede è, per dirla con Kierkegaard, il suo essere una “certezza angosciosa”, mai si potrà ritenere che la fede cancelli il dubbio, la ricerca, l’interrogazione.

Mi sento personalmente molto interessato e anche coinvolto da una fede che non pretenda di essere la risposta definitiva e compiuta alla ricerca di senso, ma che conservi il carattere essenziale di infinita inquisitio. Così intesa, la fede è una conquista mai definitiva, sempre "appesa" all’incertezza, sempre connessa all’assurdo della croce. Ma ovviamente si tratta solo di accenni, che mi riprometto presto o tardi di riprendere e sviluppare in maniera meno disorganica.

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