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Moralia Dialoghi

I filosofi e la teologia morale

Disagi e attese in ascolto reciproco

Questo Dialogo solo in modo apparente si astrae dalla risonanza con gli eventi che contraddistingue Moralia dalla sua nascita. Piuttosto lascia decantare un interrogativo che scaturisce da un disagio avvertito e da un auspicio alla base dell’impegno perseguito dalla nostra rubrica. L’arretramento rispetto alla cronaca e al puntuale impegno di porre spunti di riflessione etica, talora inconsueti, corrisponde a guadagnare un momento di dialogo più profondo.

Il disagio è quello del teologo morale nel dare conto del senso della sua riflessione al più vasto ambito pubblico e, in particolare, nel confronto scientifico con la ricerca filosofica contemporanea. Un disagio variamente articolato: come esigenza di giustificare il proprio “strumentario filosofico” operando un’intelligenza critica sulla forma del proprio sapere; come ricerca di interlocuzione, al di là di giudizi immediatamente valutativi, con gli sviluppi del pensiero filosofico contemporaneo; come reazione a forme intra-ecclesiali di scarsa percezione della complessità delle attuali problematiche etiche e all’esterno a modalità semplificatrici di comprensione e accostamento al pensiero cristiano.

Le matrici del disagio (queste e certamente altre) non sono tuttavia indizio di uno smarrimento della teologia morale e del suo contributo «per la vita del mondo», secondo il suggestivo postulato di riforma espresso dal concilio Vaticano II (cf. Optatam totius, 16). Piuttosto definiscono un auspicio corrispondente: non disattendere il compito di chiarire gli elementi caratterizzanti l’approccio teologico all’esperienza morale umana, senza rinunciare a una lucida percezione di alcuni limiti che ne caratterizzano l’esercizio, come impulso a un dialogo con il sapere riflesso che sappia assumere forme e modi di conduzione realmente inclusivi e non precipitosamente difensivi.

L’azzardo sotteso a questo Dialogo è di verificare se tali istanze sono vive anche all’interno della ricerca etico-filosofica italiana o, più modestamente, se possano trovare uno spazio di plausibilità e di interesse in alcuni suoi esponenti. Più in dettaglio a ciascun interlocutore è stato chiesto di esprimere, a partire dalla personale conoscenza e frequentazione, una valutazione sul significato e sulla qualità della teologia morale cattolica; di valutare la sua incidenza nel dibattito etico italiano; di evidenziare alcuni percorsi per implementare il dialogo tra teologi e filosofi.

I contributi del Dialogo

I contributi qui offerti consentono non solo di registrare altrettanti disagi sul fronte della ricerca filosofica, ma, ciascuno secondo la sensibilità degli estensori, danno parola a un auspicio per continuare e ampliare il pensare comune. Ricco e articolato è il ventaglio delle risposte raccolte, non solo nella denuncia dei disagi della filosofia nei confronti della “scomoda” interlocutrice teologica, ma anche nel lasciar trapelare percorsi possibili per un ascolto reciproco in grado di apprezzare le rispettive differenze e specificità.

Il chiarimento epistemologico della teologia invocato da Umberto Curi non manca di segnalare una scelta di campo che intriga: di intravedere nel teologo un uomo/una donna abitato/a dall’aeterna inquisitio generata dalla fede, ritrovando la stessa vena inquieta che attraversa la riflessione del filosofo.

L’appello argomentato da Paolo Costa a superare sia il «sogno autarchico» della filosofia contemporanea, sia i tentativi tra il velleitario e il nostalgico della teologia di «uscire da una condizione imposta di invisibilità», che individuano processi di sclerotizzazione dall’uno e dall’altro “baluardo” disciplinare, invita a una convergenza sulla irriducibile complessità dell’esperienza morale umana alla ricerca (che accomuna) di ciò che «veramente merita di essere desiderato, ciò che ha davvero valore, ciò che è bene».

La riflessione di Oreste Aime pone il problema comune alla filosofia e alla teologia di ridefinire il senso dell’etica alla luce del “sommovimento” antropologico in atto «in un mondo dove la pervasività della tecnica e il controllo sociale avranno un peso ora inimmaginabile», per «avvicinarsi a qualcosa come l’umano fondamentale in cui l’etica è implicata come costitutiva non solo in forma difensiva ma anche propositiva».

La necessità di rintracciare percorsi di avvicinamento attraverso una migliore conoscenza reciproca, aliena da pregiudizi, per superare «la contrapposizione, per molti versi inappropriata e infruttuosa, tra etica cattolica ed etica laica», assai perseguita in un recente passato soprattutto nell’ambito della bioetica, è formulata con accenti critici sull’uno e sull’altro versante da parte di Massimo Reichlin.

La frequentazione dello stesso campo di indagine, il mondo umano nella ricchezza delle sue sfaccettature, infine, è motivo per Lucia Vantini a superare il “duello frontale” tra filosofia e teologia morale, ravvisando piuttosto tra le due forme di sapere «un attrito pieno di promesse, generato dal fatto che due diversi discorsi si toccano nel narrare lo stesso mondo, avviando una contaminazione non facile ma possibile».

Questo nuovo Dialogo di Moralia può risultare, anche al lettore meno frettoloso che avrà la passione e la pazienza di accostarsi ai singoli contributi, solamente un primo “abbozzo”, dietro al quale si lascia intuire un discorso di raffinata fattura, per la più parte ancora da realizzare. In ogni caso non è un parlare che si compiace di se stesso, ma pone sul tappeto interrogativi e speranze che non riguardano solo il sapere accademico, ma il senso e la passione di vivere insieme. Il gradito intervento nel dibattito dei lettori non potrà che convincerci della sua importanza e urgenza.

Dinanzi alla teologia

 La difficoltà a rispondere

Mentre ringrazio per l’invito a partecipare a questa iniziativa e dichiaro il mio apprezzamento per essa, devo contestualmente anche sottolineare il mio imbarazzo, per una pluralità di motivi che cerco ora di elencare. Anzitutto, e soprattutto, non sono né mi considero un moralista. Non soltanto perché, sotto il profilo delle appartenenze disciplinari, il mio settore di ricerca non coincide con l’ambito della morale. Ma anche perché, dal punto di vista dei temi di riflessione, ho finora solo sfiorato le tematiche pertinenti alla filosofia morale, senza avere la pretesa di pronunciarmi su argomenti che ho toccato solo sommariamente. Si spiega anche così la mia scarsa dimestichezza con il dibattito in corso fra teologi e studiosi di morale, del quale tuttavia percepisco solo l’eco, pur senza poterne approfondire l’andamento.

Due modi di concepire la teologia

Mi limito quindi a qualche cenno – non, dunque, a vere e proprie risposte – relativo agli interrogativi proposti a partire da un riferimento a quella che a me pare essere una questione di fondo. Essa riguarda quello che a buon diritto ritengo possa essere considerato lo statuto teorico–epistemologico della teologia. In termini molto schematici, e scusandomi per la rozzezza, colgo – soprattutto da alcuni anni – una possibile divaricazione fra due modalità molto diverse di concepire la stessa teologia.

Da un lato, infatti, essa si presenta come discorso “di Dio”, come riflessione sul contenuto della Rivelazione. Dall’altro, invece, essa si declina come discorso “su Dio”, e cioè come tentativo di “dire” Dio, di parlare di Lui, di descriverne le caratteristiche, renderlo in ogni caso oggetto di un discorso. E mentre mi sento molto interessato e coinvolto – dal punto di vista culturale e filosofico – dal primo modo di concepire la teologia, sono refrattario e perfino diffidente circa la possibilità di intendere la teologia come riflessione che assuma Dio come contenuto.

Così, tanto per citare qualche esempio, mentre ritengo che – indipendentemente da opzioni personali di fede – sia ineludibile il confronto con i testi del Primo e del Secondo Testamento, non riesco a provare altrettanto interesse per i tentativi di costruire un sapere che positivamente pretenda di “dire” Dio. Insomma, trovo fondamentale (per certi versi insuperabile) la conclusione del libro di Giobbe – la “dotta” rinuncia a voler capire quale sia la concezione della giustizia che è alla base delle azioni di Dio – mentre non mi ritrovo nella forma di teologia messa in campo dagli amici di Giobbe, che vorrebbero tutto “spiegare”, pretendendo di poter compiutamente comprendere i moventi delle scelte divine.

Oltre le contrapposizioni

Solo qualche considerazione, invece, direttamente rivolta ai quesiti postimi circa la teologia morale cattolica.

Mi pare sia innegabile l’influenza spesso rilevante e comunque mai trascurabile, della teologia morale cattolica nel dibattito in corso, specie su temi sensibili dal punto di vista bioetico. Se mi è consentita un’osservazione, che è al tempo stesso superficiale e scontata, spiace dover constatare che, almeno sul piano della comunicazione di massa, le opzioni messe in campo sembrano per lo più essere ispirate dalla volontà di correggere, censurare o criticare le posizioni “laiche” – in tema di fine vita o di fecondazione artificiale – piuttosto che proiettate a costruire un comune terreno di riferimento teorico. Un atteggiamento, questo, che concorre in maniera spesso decisiva a creare o alimentare contrapposizioni – a cominciare da quella che io giudico insensata, fra “credenti” e “non credenti” – anziché cercare fruttuosi momenti di intesa e punti di contatto.

Da parte mia ho invece cercato più volte – in sedi e con modalità diverse – di argomentare il mio dissenso rispetto all’uso di tale distinzione assiomatica fra credenti e non credenti. Affinché tale schema – cui abitualmente si ricorre – avesse un senso, sarebbe necessario poter designare i due termini come “stati”, almeno relativamente stabili, tali da contrassegnare “posizioni” diverse e descrivibili in termini analitici. Dubito invece fortemente che quello di essere credente possa essere qualificato come uno “stato”, come tale capace di escludere il suo contrario. Se è vero – secondo la mia convinzione – che ciò che caratterizza la fede è, per dirla con Kierkegaard, il suo essere una “certezza angosciosa”, mai si potrà ritenere che la fede cancelli il dubbio, la ricerca, l’interrogazione.

Mi sento personalmente molto interessato e anche coinvolto da una fede che non pretenda di essere la risposta definitiva e compiuta alla ricerca di senso, ma che conservi il carattere essenziale di infinita inquisitio. Così intesa, la fede è una conquista mai definitiva, sempre "appesa" all’incertezza, sempre connessa all’assurdo della croce. Ma ovviamente si tratta solo di accenni, che mi riprometto presto o tardi di riprendere e sviluppare in maniera meno disorganica.

Oltre il conflitto delle Facoltà: dove sta la morale?

Dati di fatto

È inutile nascondersi dietro un dito. Ai nostri giorni un filosofo morale, in Italia e fuori d’Italia, può formarsi intellettualmente e passare la propria intera vita professionale senza porsi il problema del confronto con un punto di vista teologico sulla propria disciplina, in casi estremi senza nemmeno essere consapevole della sua esistenza.

Per evitare di fare la figura del saputello, premetto che io sarei potuto essere la prova vivente di questo enunciato perché, se la sorte con i suoi strani giri non mi avesse portato a lavorare in un Centro per le scienze religiose, è probabile che pure io balbetterei di fronte alla richiesta di nominare anche solo un teologo morale italiano di valore. Al contrario, oggi posso annoverare due teologi, uno morale, Antonio Autiero, e uno sistematico, Davide Zordan, nel mio personale pantheon degli studiosi da cui ho imparato di più nella vita.

La spiegazione di questo blind spot è sia sociologica che (meta)filosofica. Quando parliamo di secolarizzazione abbiamo spesso in mente idee sbagliate, ma non andiamo troppo lontano dal vero se ce la figuriamo anzitutto come lo scorporamento e il successivo trasferimento di funzioni tradizionalmente attribuite a una istituzione religiosa (nel caso europeo, le chiese nazionali) a ordinamenti secolari. Il governo delle coscienze è una di queste. E se per età secolare, seguendo l’insegnamento di Charles Taylor, intendiamo un’epoca in cui si è affermata a livello di massa l’opzione dell’umanesimo esclusivo, non stupisce che in una società secolarizzata possa esistere un numero consistente di persone che considera la morale un ambito dell’esistenza del tutto indipendente dalle credenze religiose, soprattutto nella fascia più scolarizzata della popolazione.

Questo è il sommovimento geologico che ha cambiato radicalmente il panorama dello studio sistematico delle condizioni di una vita moralmente degna, facendoci transitare da una situazione in cui l’autarchia della giustificazione filosofica in ambito etico era semplicemente una delle opzioni in campo, a una in cui essa è vissuta dalla maggioranza degli esperti del settore come un requisito epistemologico basilare.

Ai nostri giorni questo modo di incorniciare tacitamente il fenomeno morale è rafforzato dalla tendenza ormai sistemica a irrigidire i confini tra le discipline. Così, in un ambiente sempre più dominato dallo stile di pensiero «purista» della filosofia analitica, la convinzione che il ragionamento morale tematizzi pretese di validità diverse da quelle oggetto del discorso scientifico o estetico – esistenziale – espressivo può facilmente trasformarsi in una difesa compulsiva dei confini disciplinari dall’intrusione di voci che fanno appello a ragioni a cui non viene riconosciuto diritto di parola a monte, e non a valle, della discussione.

In questo orizzonte, per esempio, è quasi inevitabile che gli sforzi di ricontestualizzazione del fenomeno morale vengano di norma stigmatizzati come modalità di ragionamento allusivo e non rigoroso essendo percepiti come tentativi di differire all’infinito l’unico compito intellettuale legittimo: quello della giustificazione di un enunciato (o una catena di enunciati) perfettamente disambiguati, privi di sfondo.

È chiaro che quando prevale questo punto di vista, qualsiasi appello a un modello di ragionamento non geometrico o che lasci uno spazio epistemico significativo a una relazione non neutrale o impegnata con il proprio oggetto di studio è destinato a rimanere inascoltato, se non addirittura serenamente ignorato, non essendo registrabile dai sensori attivi nel campo di indagine della filosofia morale «secolare», per la quale cose come la fede, la rivelazione o il dogma sono fenomeni talmente stravaganti da poter passare inosservati (a patto che non pretendano di interferire nelle pratiche inferenziali). È questo quello che ha in mente Habermas, quando con un vezzo tipico dell’intellettuale post–secolare, ama descriversi come «privo di orecchio religioso» (religiös unmusikalisch).

Perché non dovrebbe essere così?

Per chi interpreta la vicenda che ho condensato in una vignetta come la dilapidazione di un patrimonio intellettuale prezioso, la situazione appare, dunque, tutto fuorché rosea. Ma esiste un’alternativa realistica a questo stato di cose?

Se si esamina lo scenario appena descritto tenendo sullo sfondo il testo probabilmente più emblematico della politica culturale post-illuministica, ossia Il conflitto delle Facoltà di Kant,[1] è difficile scacciare l’impressione che tanto il sogno autarchico della filosofia contemporanea quanto la lotta della teologia per uscire da una condizione imposta di invisibilità siano indici di senilità: i sintomi più evidenti, cioè, di un avanzato processo di sclerotizzazione.

Da un lato, infatti, i tentativi dei filosofi contemporanei di guadagnarsi una patente di immacolata rispettabilità scientifica sembrano avviati a un naufragio quasi certo, costretti come sono a destreggiarsi tra la Scilla dell’impulso alla specializzazione e la Cariddi della pressione crescente a legittimare i risultati della propria ricerca sulla base della sua redditività. Dall’altro lato, la pretesa della teologia di non essere ridotta alla mera convalida (per quanto ingegnosa) di un determinato impianto dottrinale o di una certa «regola» di vita deve fare i conti con la difficoltà a trovare interlocutori genuinamente interessati ai risultati di un’investigazione guidata da un ideale gnoseologico comunque ibrido, se misurato secondo gli standard della epistemologia moderna.

Sono davvero lontanissimi i tempi in cui Kant poteva impegnarsi a difendere il diritto inviolabile di critica presentandolo come una risorsa indispensabile anche per discipline allora di fatto socialmente più rispettabili come la teologia, la giurisprudenza o la medicina. Negli ultimi due secoli il mondo è cambiato così profondamente che non si capisce mediante quali ragionamenti rigorosi o slanci della volontà potrebbe essere scongiurata una debilitante, ma liberatoria resa al fatalismo. Nell’epoca in cui ci è toccato in sorte di vivere è davvero difficile immaginarsi un ruolo non da comprimari per figure nobili ma ormai decadute come quella del/la filosofo/a e del/la teologo/a.

A giudicare dalla non ricchissima letteratura in materia, attualmente chi proprio non vuole arrendersi alla forza del destino e insiste nel difendere l’utilità di una collaborazione tra indagine teologica e investigazione filosofica ha a disposizione, mi pare, due diversi tipi di argomentazione.[2]

La prima è di stampo contestuale (o esternalista) e fa essenzialmente leva su un fatto noto: la crisi apparentemente strutturale delle diagnosi, un tempo molto popolari, dell’inevitabile declino della religione nella modernità. La maggioranza degli studiosi oggi, infatti, concorda che se, come tutto fa supporre, le religioni sopravvivranno all’onda d’urto del disincanto moderno, è auspicabile che esse mantengano un livello alto di articolazione interna dei contenuti delle loro credenze. In questo modo, però, si riesce al massimo a rendere meno plausibile l’estinzione spontanea del sapere teologico e più problematica la pretesa di autosufficienza delle filosofie morali autarchiche.

Il secondo argomento è più tematico, ma si fonda anch’esso su un dato di fatto, sebbene più contestabile del primo. Mi riferisco alla presa d’atto della complessità, solo parzialmente riducibile, dell’esperienza morale umana. Qui torna in primo piano il tema attorno a cui è stato costruito questo forum virtuale ed è su una nota, se non più ottimistica, quantomeno meno rinunciataria, che vorrei concludere il mio breve intervento.

Per anticipare in forma condensata l’esito del mio ragionamento, direi che qualsiasi pretesa di autosufficienza in ambito etico è destinata a naufragare di fronte al riconoscimento della compresenza di livelli diversi, e nondimeno essenziali, dell’esperienza morale, uno dei quali – quello che lega i valori al senso della sacralità – è interpretabile come un ponte naturale tra la riflessione teologica e quella filosofica in ambito etico.

Configurazione dell'esperienza morale

Per spiegarmi meglio, mi azzardo a offrire un’interpretazione ultraschematica della struttura dell’esperienza morale. Per cominciare, mi limito a ricordare che l’etica ruota attorno a una domanda che riguarda tutti, nessuno escluso: «Come dobbiamo vivere?» E la risposta a questa domanda, che si ripropone puntualmente nelle varie fasi di vita delle persone, prende forma in un campo che, a prima vista, sembra organizzarsi attorno a due poli opposti.

Da un lato, c’è il modo in cui siamo fatti: i desideri e i bisogni che semplicemente abbiamo. In proposito è sufficiente pensare a un elemento imprescindibile della vita quotidiana: il cibo. Noi veniamo al mondo con un impulso primario a nutrirci e con delle preferenze personali rispetto ad alcuni cibi che ci piacciono particolarmente. Sul fronte opposto, a questi desideri di primo grado si contrappongono dei precetti o degli obblighi a cui siamo soggetti per il semplice fatto di essere socializzati in una particolare comunità umana: «il cibo non si spreca» o «bisogna digiunare un giorno alla settimana» o «non si mangia la carne degli animali domestici», ecc.

In questo iato tra fatti e norma prende notoriamente forma il fenomeno morale. L’esistenza di questo gap non lascia tuttavia i nostri desideri inalterati. Una componente importante della domanda circa il modo in cui dobbiamo vivere è la curiosità che più o meno tutti hanno per ciò che veramente merita di essere desiderato, ciò che ha davvero valore, ciò che è bene per noi. Più che essere binaria, l’esperienza morale ha in effetti una configurazione triangolare. Da un lato, c’è il modo in cui siamo fatti (1); poi ci sono le norme che ci dicono quello che dobbiamo o non dobbiamo fare (2), e infine ci sono i valori «forti» verso cui orientiamo le nostre vite: il nostro senso del bene, del bello, di ciò che è veramente importante, persino sacro (3).

La mia impressione, che in questa sede per ovvi motivi posso soltanto enunciare, è che sia proprio qui, nella sfera dei beni e dei valori, che accadono le cose più sorprendenti, creative e arcane della condizione, sempre in bilico tra realtà e finzione, degli agenti e dei pazienti morali. E ho usato il verbo «accadere» non a caso, perché questo dinamismo è l’aspetto allo stesso tempo più interessante e più opaco della vita morale delle persone.

Siccome considero i teologi in genere, e i teologi morali in particolare, come grandi esperti dell’intricato rapporto tra la natura, la libertà e la regola, quando indosso il mio abito liso di filosofo morale, continuo ancora oggi ad aspettarmi da loro un contributo significativo nello sforzo comune, e tutt’altro che concluso, di gettare un po’ di luce sull’enigma probabilmente insolubile della relazione tra moralità e vita.

 

[1] Cf. I. KANT, Il conflitto delle facoltà, a cura di D. Venturelli, Morcelliana, Brescia 1994.

[2] Ho discusso le prospettive contemporanee di una collaborazione sistematica tra teologi e filosofi nello studio del fenomeno religioso in un libro scritto a quattro mani con Davide Zordan, In una stanza buia. Filosofia e teologia in dialogo, FBK Press, Trento 2014.

Teologia morale e filosofia morale in Italia. Per un’interazione

Un po’ di storia…

Per capire quali sono i rapporti tra la teologia morale e la filosofia morale, e più generalmente la cultura, in Italia, mancando una documentazione analitica (volumi, riviste, discussioni) ci si deve basare su una percezione complessiva che è di natura intuitiva, nella speranza che non sia troppo condizionata da eventuali pregiudizi.

Il dibattito etico in Italia ha ripreso lentamente vigore a partire dalla fine degli anni Ottanta del Novecento grazie agli effetti della “fine delle ideologie” e alla contemporanea affermazione della demistificazione nietzschiana della morale (il “pensiero negativo” nella definizione di I. Mancini). Prima di quel tornante una riflessione morale, accademica e non, non aveva un particolare rilievo pubblico, se non in contesti ristretti: basterebbe consultare i cataloghi delle case editrici del tempo per averne una conferma.

Spesso l’innesco della riflessione è derivata dall’introduzione di opere di pensatori di altre aeree culturali (anglosassone: J. Rawls, A. MacIntyre; tedesca: riabilitazione della filosofia pratica, K.O. Apel, J. Habermas, H. Jonas; francese: E. Levinas, P. Ricœur; …); di lì in poi anche la filosofia italiana ha incominciato a produrre, prima in dipendenza da questioni provenienti da altrove e poi progressivamente con l’apporto di percorsi originali di ricerca, in particolare sul crinale tra antropologia ed etica.

Attiva in questa ripresa è stata ed è ancora oggi un’antica pregiudiziale “kantiana”, soprattutto nei confronti di un contesto considerato “cattolico”, per quanto in via di rapida secolarizzazione: la rivendicazione dell’autonomia dell’etica dalla religione, da un lato, ha impedito un confronto diretto e tranquillo con le istanze religiose e teologiche; dall’altro, spesso ha eretto l’istanza etica a unica valutazione critica, severa o distaccata, dell’atteggiamento religioso.

Due dimensioni

In questa storia hanno pesato due momenti. Le nuove frontiere morali sono diventate sensibili particolarmente in campo bioetico, ove la rivendicazione di “valori non negoziabili” ha reso difficile una ricerca più spassionata in questo e in altri campi. D’altra parte, nonostante gli appelli, una vera e propria “morale laica” autorevole non ha mai preso forma, nonostante il predominio sulle cattedre universitarie.

Talvolta queste due dimensioni si sono presentate con una forte connotazione fantasmatica e meramente ideologica: da un lato la contrazione moralistica si affermava in termini di egemonia, dall’altro l’assenza di una “morale laica” capace di ethos o di “religione civile” accentuava a vuoto la sua prestazione.

Se nella produzione di teologia morale si può scorgere un’attenzione reale, anche se non sempre molto approfondita, alla ricerca filosofica, è raro trovare in campo filosofico un qualche atteggiamento corrispondente. La pregiudiziale “kantiana” e gli steccati culturali con le loro ricadute politiche e accademiche, pur non essendo così marcati come altrove (ad es. in Francia), hanno di fatto impedito una qualche attenzione al possibile lato religioso della questione morale. Solo quando J. Habermas nella svolta del millennio ha tolto una sorta di veto da lui stesso in precedenza formulato, l’atteggiamento anche in Italia è diventato più possibilista, senza però mutare l’assetto finora descritto.

In questi ultimi cinque decenni la teologia morale ha dovuto innanzitutto accogliere l’invito a rinnovarsi proveniente dal magistero conciliare e poi affrontare alcune sfibranti questioni di assetto interno che non potevano essere di significativo stimolo ad un’interlocuzione esterna (morale autonoma, opzione fondamentale …). A lungo, poi, l’insegnamento della morale (in particolare nel campo sessuale e nella bioetica, quest’ultima cresciuta a dismisura rispetto ad altri aspetti ugualmente importanti) è stato sottoposto a particolare sorveglianza, che non ha certamente favorito il dibattito interno né soprattutto il rapporto con altre componenti della cultura e della società.

Parlare di estraneità, in questo caso, è certamente corretto. I recenti manuali hanno portato ad un buon livello il risultato complessivo della produzione teologica morale proposta nell’insegnamento nelle facoltà teologiche, ma probabilmente risulta essere come una torre d’avorio, non propriamente in grado per interloquire con la filosofia e più in generale con la cultura, non solo quella laica ma anche quella cosiddetta cattolica. Ad altre possibilità può contribuire lo studio storico della disciplina, non solo al suo interno, ma nella sua reale collocazione sociale e culturale, come ha proposto Paolo Prodi.

Teologia morale vs Filosofia morale: quali vie di confronto?

Se questa ricostruzione sommaria è corretta, ci si può interrogare su quali vie si aprano ora davanti a noi. La prima constatazione da fare è che il mondo sta cambiando ad “alta velocità”. Possiamo prendere come punto di riferimento simbolico ciò che tenta di dire U. Beck nel suo libro postumo, quando adotta la categoria di metamorfosi. Non siamo più nel cambiamento (moderno), ma nella metamorfosi indotta dalla rivoluzione tecnica e informatica, che rende superati i riferimenti abituali ancora in vigore.

È a partire da questo mondo in via di trasformazione – strutturale, culturale, antropologica – che si stanno ponendo le domande di sempre ma in modo del tutto nuovo per quanto non ancora in forma articolata. La sfida è rivolta tanto alla filosofia quanto alla teologia. Non è una questione di presunta e transeunte attualità. Dobbiamo ad H. Jonas averla colta se non in tutta la sua articolazione almeno nella sua decisività con l’elaborazione di Il principio responsabilità già nel 1979. È guardando al futuro incombente che si possono individuare domande che coinvolgono tutti e ciascuno, le culture le religioni, e dunque anche la filosofia e la teologia.

Un punto di convergenza e di interpellazione reciproca potrebbe riguardare il senso dell’etica. Il sommovimento antropologico in cui stiamo entrando, richiederà questo impegno in un mondo dove la pervasività della tecnica e il controllo sociale avranno un peso ora inimmaginabile. Altrimenti sarà dominante l’imperativo tecnico: se puoi, devi! Grazie a questo dissodamento sarà possibile avvicinarsi a qualcosa come l’umano fondamentale in cui l’etica è implicata come costitutiva non solo in forma difensiva ma anche propositiva. Su questo punto la teologia morale cristiana deve essere in grado di esplicitare come il Vangelo contribuisca a illuminare e rendere possibile questo umano fondamentale, ma può e deve anche imparare da chiunque sia in grado di comprendere e governare il momento storico in cui ci stiamo inoltrando.

Per quanto riguarda aspetti più concreti la mappa sia teorica che pratica è già ampiamente tracciata dalla Laudato si’ e dalla variazioni libere sul tema in ordine alle convinzioni fondamentali, alle sfide planetarie, agli orizzonti di convivenza, agli orientamenti “spirituali”. La saldatura di questione ecologica e domanda di giustizia, tenendo conto di contesti multiculturali sempre più ampi, apre nuove possibilità di confronto, soprattutto se riesce a rompere certe incrostazioni accademiche che possono isterilire la riflessione tanto filosofica quanto teologica.

Ci sono compiti, infine, che riguardano la teologia in quanto tale. Forse la sfida più grande e delicata per la teologia in generale e quella morale in particolare è pensarsi come sostegno e orientamento ad una testimonianza cristiana pubblica sempre meno istituzionale e sempre più personale e comunitaria. Ma questa è una trasformazione che tocca innanzitutto la chiesa e che la teologia nella sua intera articolazione potrà sia fare propria sia ispirare, con possibili feconde ricadute nel dibattito filosofico e culturale.

Per un fruttuoso scambio e confronto tra prospettive disciplinari

Vorrei incominciare queste brevi riflessioni dichiarando che la mia conoscenza della letteratura teologico–morale cattolica prodotta nel nostro paese non ha carattere sistematico. La mia frequentazione di riviste e volumi di carattere teologico, in particolare con riferimento a tematiche etico-pratiche, è senza dubbio non episodica, ma non posso dire di avere una conoscenza approfondita dell’insieme della produzione in questo settore.

Perciò, è possibile che le impressioni che qui verrò esponendo siano viziate da un’insufficiente dimestichezza con quest’area disciplinare. In linea generale, mi pare di poter dire che, in molte sue espressioni, la teologia morale italiana possieda una notevole profondità di analisi e un profilo scientifico di grande valore. Alcuni dei contributi pubblicati nelle principali collane degli editori che si occupano principalmente di teologia si collocano su livelli di valore internazionale, per ricchezza e raffinatezza di analisi, sia storica, sia esegetica, sia concettuale e argomentativa.

In diversi di questi casi, il confronto con la ricerca etico–filosofica è significativo e approfondito; il che potrebbe far ipotizzare un fruttuoso scambio e confronto tra prospettive disciplinari, che consenta all’una di beneficiare del lavoro svolto dell’altra. Un simile confronto – per quanto mi è dato di vedere – avviene, tuttavia, solo in misura limitata. Le ragioni di ciò mi pare si possano ricondurre a un duplice ordine di considerazioni.

Le ragioni di un limitato confronto: da parte della filosofia morale…

Da un lato, un limite al confronto tra ricerca teologica e ricerca filosofica è dato dal carattere parziale del riferimento operato dalla teologia alla ricerca filosofica. Intendo dire, con ciò, che, quando si istituisce un confronto con la ricerca filosofica, accade spesso che si selezionino quegli autori che appaiono per vari aspetti già prossimi a una ricerca teologica, o quanto meno che propongono prospettive filosofiche ispirate a tradizioni religiose: è il caso, per fare alcuni esempi, di filosofi come Blondel, Marcel, Buber, Lévinas o Ricoeur.

Questo è ovviamente naturale, ma fa correre il rischio di presentare come punto di vista de “la filosofia contemporanea” una parte che oggigiorno si deve ritenere minoritaria nel panorama delle posizioni filosofiche. In molti casi, si tratta infatti di autori i cui contributi principali risalgono a molti decenni fa e che non possono dirsi contemporanei nell’accezione più ristretta del termine. Un ulteriore elemento di parzialità è dato dal riferimento privilegiato ad autori della filosofia francese o tedesca; ciò è pienamente in linea con le tendenze culturali più generali del nostro paese, ma ha comunque il limite di trascurare il fatto che una parte molto consistente della ricerca etico–filosofica odierna proviene dalle aree di lingua inglese, o che hanno adottato l’inglese come lingua veicolare della ricerca accademica.

Dall’altro versante, il confronto fruttuoso che potrebbe instaurarsi tra teologia e filosofia è limitato – in misura assai rilevante – dalla sostanziale ignoranza, da parte dei filosofi, della letteratura in ambito teologico. Per ragioni storiche e istituzionali ben note, in Italia la teologia non fa parte del novero delle discipline accademiche, sicché la stessa idea di concepirla come argomento di riflessione scientifica è spesso considerata dubbia dagli ambienti accademici “laici”.

L’idea che molto spesso viene sottintesa è che la teologia non costituisca una disciplina votata a una ricerca autonoma, con propri criteri scientifici, ma sia invece una sorta di strumento per ripetere e illustrare verità elaborate altrove, le quali costituiscono in fondo il suo reale criterio di scientificità.

…e della teologia morale

Questa figura scadente del lavoro teologico deriva, appunto, dalla scarsa dimestichezza dei filosofi con la ricerca teologica di alto livello; ma è in qualche misura anche responsabilità della teologia stessa, che, almeno in alcuni casi, tende effettivamente a presentarsi in questa veste puramente ancillare.

Mi riferisco, in particolare, a una certa pubblicistica su temi bioetici, nella quale lo sforzo argomentativo e di libera ricerca è talvolta ridotto al minimo, per enfatizzare piuttosto la presentazione di alcune tesi, la cui verità viene in certo modo data per acquisita anteriormente allo svolgimento della ricerca. Accade spesso di osservare, in questo tipo di letteratura, un sostanziale disinteresse nei confronti dell’analisi dettagliata delle ragioni e degli argomenti avanzati dalle diverse prospettive dell’etica “laica”; si presuppone, in sostanza, che questa ricerca non abbia nulla da offrire a una riflessione morale ispirata alla fede religiosa, dal momento che, tolto il riferimento a Dio e ai valori o alle norme assolute, non resterebbe lo spazio se non per concezioni relativiste, soggettiviste o procedurali.

Questa sostanziale liquidazione delle prospettive non religiose che talvolta si osserva nella letteratura teologica è di per sé criticabile, ma soprattutto rischia di alimentare il corrispondente disinteresse della ricerca filosofica per quanto di rilevante e di scientificamente sviluppato viene proposto dalla ricerca teologica. Questa situazione è indubbiamente poco auspicabile, perché tende inesorabilmente a protrarre la contrapposizione, per molti versi inappropriata e infruttuosa, tra etica cattolica ed etica laica; contrapposizione che serve più a rivendicare identità culturali forti e non negoziabili che a portare avanti programmi di ricerca che possano condurre a soluzioni condivise. Da questo punto di vista, il ruolo della teologia morale nel dibattito etico del nostro paese potrebbe essere molto più rilevante e fruttuoso di quello che è stato negli ultimi vent’anni.

Una teologia morale percepita – talvolta a torto, ma spesso a ragione – come una sorta di megafono (se mi si passa il termine) del magistero rappresenta, per molti aspetti, una risorsa sprecata: in primo luogo, perché, in un paese come l’Italia, il magistero non ha granché bisogno di megafoni per far sentire la sua parola; in secondo luogo, perché in questo modo la teologia rinuncia a svolgere quel ruolo di mediazione tra la fede e la cultura che è costitutivo della sua vocazione. Mediazione che, per l’appunto, si realizza nel propiziare un’intelligenza della fede, ovvero un’argomentazione pacata e dialogante delle ragioni che la fede propone a ogni persona di buona volontà.

Prospettive di convergenza

Volendo indicare, molto timidamente, delle possibili vie per migliorare la qualità e l’impatto della ricerca teologico–morale italiana, mi concentrerei su due elementi, entrambi importanti. Da un lato, è vitale attivare un confronto più sistematico e costante con le tendenze attuali della ricerca etico–filosofica; lo sforzo sincero di comprenderne le ragioni può condurre sia a una critica più efficace e persuasiva dei loro limiti, sia all’individuazione di percorsi parzialmente comuni, che possano essere utili anche in vista dei riflessi pubblici, politici o legislativi, di molti argomenti attuali.

D’altro lato, e sempre nella medesima prospettiva di un dialogo più profondo e più proficuo con il mondo contemporaneo, è importante che la teologia ripensi il proprio ruolo pubblico, attivando forme di presenza nuove e più incisive. È strano che, benché vi sia una cospicua presenza mediatica del papa o dei vescovi, la presenza sulla scena culturale italiana dei teologi costituisca un fatto raro e poco diffuso.

La teologia esce con molta difficoltà dalle facoltà teologiche, dalle librerie teologiche e dagli ambienti associativi e culturali di ispirazione religiosa. Certo, non solo e forse non primariamente per colpa sua, ma in larga parte per il suddetto disinteresse della cultura laica. Cionondimeno, uno sforzo di immaginazione per trovare strade che consentano di fare del discorso teologico un elemento non episodico della discussione culturale pubblica sulle grandi questioni etiche della nostra società è un compito non differibile: per il bene della teologia e della fede, ma in ultima istanza per il bene della stessa società.

Che cosa si aspetta una filosofa dalla teologia morale?

Dopo una morte

C’era una volta il Dio dei filosofi. Ai cristiani sembrava un Dio molto diverso dal loro, perché privo di storia, di dramma, di spiritualità incarnate, di tradizioni condivise e di mondi comunitari. Era un Dio garante dell’ordine metafisico nel quale ogni realtà trovava il proprio posto e il proprio nome. Quando Nietzsche portò l’annuncio della sua morte, una morte definitiva, la filosofia non smise di pensare le profondità nascoste in ogni eccesso dell’essere. Semplicemente cercò di non tradirle con riferimenti estrinseci e alienanti, implicandosi in narrazioni dell’esistenza rispettose dei processi consci e inconsci vissuti dalle singolarità, uomini e donne segnati nella loro differenza da un’infinità di differenze.

La teologia postconciliare, ormai decisamente smarcata dalla diffidenza verso il mondo e i suoi simboli, ha, da parte sua, smesso di trattare la filosofia come un’ancella, e si lascia provocare da quella radicalità della domanda teoretica che il discorso su Dio non sempre si può permettere. In questa cornice generale si colloca poi ogni presa di parola soggettiva, sbilanciata sull’uno o sull’altro versante.

Tra filosofia e teologia

Queste parole nascono sul confine tra filosofia e teologia. Senza dubbio non è più il tempo della contrapposizione. Tentare di dire che cosa, da filosofi, ci si aspetta dalla teologia morale non può essere gesto del noi e voi. Non si tratta di appiattire i percorsi e di nascondersi nelle convergenze tanto più facili quanto superficiali, ma di collocarsi nella scomoda posizione interdisciplinare, per uscire dai confronti epistemologici secchi e provare ad addentrarsi nella storia umana, che è quella dell’esperienza da sentire, raccontare, giudicare e tradurre in simboli trasformativi, secondo orizzonti differenti che tuttavia non vogliono essere autoreferenziali.

Mi sembra sia questo, tra molti altri certamente, il guadagno del confronto aperto nel 2007 dalla fenomenologa Roberta de Monticelli con il suo Sullo spirito e l’ideologia. Di fronte al rifiuto ecclesiale di celebrare i funerali di un uomo che, per amara, lucida e disperata scelta di congedarsi da una vita che la malattia aveva straziato consumando il tempo senza mai restituire nulla in cambio, De Monticelli aveva rivolto la sua profonda parola critica ai cristiani, chiedendo le ragioni del loro silenzio in una Chiesa che non era più in grado di vedere le singolarità per quello che sono, uniche, irripetibili e insostituibili nel loro percorso personale e nella loro versione del mondo, spesso drammatica.

Nella posizione di una pensatrice che allora si sentiva sulla soglia della Chiesa – lì forse per non chiudersi al mondo di fuori, un po’ come Simone Weil – la filosofa esprimeva il suo «disagio dell’intelligenza» per una religione che si esprimeva più per ideologia che per spirito di carità cristiana. L’eco di questo scritto fu larghissima e differenziata, ma ricordo la versione della filosofa e teologa Alessandra Cislaghi, che da una posizione diversa – lei «in fondo alla Chiesa» – si sentiva chiamata a prendere la parola con Parresia, titolo dello scritto con cui appunto rispondeva alla collega.

L’intento del suo discorso non era apologetico, ma mirava a far emergere la complessità del vissuto credente, certamente esposto alla mortificazione di ogni forma di dogmatismo acritico e spietato di una tradizione che a volte fa male, ma anche nutrito di sorgenti di senso e di forme di vita pratica non sempre ben riconoscibili da fuori. L’autrice ci suggerisce di imparare a sospettare l’esistenza di questo mondo implicito, per evitare di avviare polemiche con un avversario che, nella repulsione per ogni ideologia, rischia di venire a propria volta deformato ideologicamente.

Un attrito promettente

Non è dunque un duello frontale quello che si innesca, ma un attrito pieno di promesse, generato dal fatto che due diversi discorsi si toccano nel narrare lo stesso mondo, avviando una contaminazione non facile ma possibile. In questa contaminazione non c’è simmetria: la filosofia cerca nell’immanenza la verità di ciò che si manifesta e ha bisogno che l’implicito profondo in cui si radica la teologia trovi espressione simbolica, riconoscibile, giudicabile, confrontabile, assumibile e rifiutabile; dal canto suo, la teologia approfondisce l’esperienza umana come estensione raggiunta e abitata da un divino capace di incarnarsi, attraversata da uno Spirito che intercetta e corrobora tutte le risorse disponibili per una vita buona e felice, e destinata a partecipare gratuitamente all’agape della vita trinitaria.

Inaggirabile, la domanda filosofica sorge nella consapevolezza che le azioni morali sono una forma di lettura personale del mondo e racchiudono un senso indeducibile fuori dalla situazione concreta in cui avvengono. Pensare è gesto che non sopporta l’infedeltà alla storia né il misconoscimento delle modalità con cui questa si imprime nella carne di ogni singolarità, e pretende che si faccia altrettanto, anche quando c’è di mezzo Dio.

Squilibri fecondi

In questo senso, la teologia morale non scoraggia i filosofi se accetta di vivere alcuni squilibri fecondi. Ciò accade: 

–quando essa si riferisce a leggi morali senza dimenticare che esse sono una forma di custodia del desiderio e che Gesù è venuto a dar loro compimento restituendole a quella sorgente vitale, singolare e differente a cui è affidato il destino di ogni soggetto;

–quando riconosce il peccato anche come colpa verso il desiderio stesso, proprio e altrui; accade quando il suo linguaggio non è neutro e asettico, ma rende conto del fatto che siamo uomini e donne che si trovano in un ordine simbolico che ci nomina gerarchicamente e che ci consente espressività spesso rigidamente predeterminate;

–quando dà spazio all’agentività (agency) delle persone, che devono poter riconoscere e sperimentare la loro responsabilità e la loro forza di intervento sulla realtà, a livello cognitivo, intenzionale, emotivo e pratico;

–quando sa giudicare i contesti che promuovono questa forza o scoraggiano le forme impersonali e paralizzanti del suo controllo;

–quando in essa responsabilità non è in contrapposizione a vulnerabilità;

–quando resta sul piano della realtà, facendo attenzione a ciò che si manifesta come eccedenza;

–quando prende sul serio la pratica e le pratiche, luoghi epifanici di un senso che non può essere ricavato dalle teorie, ma sperimentato arrischiando la propria stessa postura nel mondo;

–quando rimette al centro la corporeità in tutta la sua complessità, dove natura è processo e divenire, la biologia è già simbolica, e la materialità appare come una forma possibile dello spirito;

–quando vigila sulle varie forme di violenza linguistica, ed evita parole che umiliano, provocano, escludono;

–quando non ha paura delle parole che nascono dall’elaborazione delle donne;

–quando ricorda che la virtù non si esaurisce sul piano privato, ma ha anche una destinazione pubblica;

–quando riconosce autorità ai soggetti imprevisti, che hanno un’esperienza da spartire;

–quando soprattutto racconta la dinamica pasquale, che si esplica come passaggio da morte a vita, in un sentire anticipato in ogni storia che supera ferite, colpe e fallimenti…

 

Non sempre, ma la teologia morale è capace di tutto questo. La filosofia che se ne accorge e apre un dialogo è quella che sa di non bastare a se stessa e che non ha troppa fretta di farsi un’idea dell’esperienza cristiana. Con un atteggiamento fenomenologico profondo e disposto a un’etica dei sensi, essa intercetta l’implicito della teologia proprio mentre questo va nascendo e tenta di esprimersi, e riconosce frammenti della propria verità nella trama di quel discorso.

Solo in questa circolarità contaminata, per dirla con le parole di Deleuze, possiamo «diventare degni di ciò che ci accade».

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