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Moralia Dialoghi

I metodi naturali: norma o stile di vita?

All’avvicinarsi del 50° anniversario dalla sua promulgazione, e nel contesto del Sinodo dei vescovi sulla famiglia, l’enciclica Humanae vitae assume nuovamente una rilevanza importante. Il trascorrere del tempo ha mostrato come il beato Paolo VI abbia avuto una visione molto più esatta della realtà rispetto ai suoi critici. La banalizzazione della sessualità, conseguenza della rivoluzione sessuale di quegli anni, è un fenomeno esteso di cui si fanno portavoce persone completamente aliene al cristianesimo, come il coreano Byung Chung Han.

Un’enciclica ricca di significato

Certamente l’enciclica non riflette solo sul valore culturale della sessualità umana nel suo tempo, ma aveva avuto anche l’incarico esplicito dal Concilio di offrire una norma relativa alla contraccezione nel matrimonio, che necessitava di una revisione dovuta alla novità rappresentata dall’apparizione degli antiovulatori. Essendo una richiesta giunta da un Concilio, questo valore normativo aveva un’importanza speciale. Qualsiasi valutazione dell’enciclica che ignori questo fatto incorre in un grave anacronismo. Il modo in cui la Gaudium et spes si riferisce a questo tema dà per scontata una successiva dichiarazione normativa da parte del magistero legittimo. Lo stesso Paolo VI inizierà il testo indicando le ragioni della legittimità del magistero per quanto riguarda la legge naturale (n. 4).

Questo è rilevante per non proiettare sull’enciclica categorie posteriori, che non le corrispondono e non le appartengono. La norma che Humanae vitae emette parte dalla convinzione che è compito del magistero della Chiesa farlo – dato che era stato implicitamente riconosciuto dal Concilio. Questo presupponeva l’esistenza di atti intrinsecamente cattivi. La norma non solo segnalava atteggiamenti generici circa il rispetto della vita e il ruolo della generazione nella stessa, ma anche implicazioni chiare relative all’atto coniugale.

Cronologicamente si osserva che fu la pubblicazione dell’Humanae vitae a condurre numerosi moralisti a negare le due premesse anteriori. In questo ordine: dapprima essi negarono la pertinenza della norma con la rivelazione che, pertanto, non avrebbe potuto essere oggetto di un pronunciamento autenticamente magisteriale. In un secondo momento essi rigettarono l’esistenza degli atti intrinsecamente cattivi, sostenendo che le norme morali sono indicazioni che aiutano le persone, ma che, essendo esse generali, non obbligano in tutti i casi concreti.

Il dibattito posteriore è stato molto ricco e raggiunge il suo vertice con l’enciclica Veritatis splendor. Pertanto qualsiasi modo di analizzare la Humanae vitae senza tener conto di queste discussioni e delle successive dichiarazioni magisteriali è un metodo contrario al più elementare rigore teologico.  

Questo significa avere rispetto della Humanae vitae in due sensi:

1. La relazioni esistente tra la norma morale e lo stile di vita.

2. L’esistenza di norme morali relative alla sessualità umana.

Il valore morale della norma

Una delle dichiarazioni più luminose seguite all’Humanae vitae fu quella di Servais Pinckaers quando si riferisce ai fondamenti della moralità che non furono affrontati durante il Concilio. Nel suo libro Le fonti della morale cristiana (1985; tr. it. 1992) segnalò la radicale differenza di comprensione della norma nel nominalismo e nella tradizione rappresentata da sant’Agostino e da san Tommaso. I due santi dottori non misero mai in opposizione norma e stile di vita, poiché il contenuto della legge morale ha che fare con la felicità, che è la ragione profonda della norma. Il concetto di una norma come espressione astratta di un’autorità che desideri legare la volontà del suddito non corrisponde alle esigenze basiche della morale cristiana.

La posizione tommasiana si fonda sulla valorizzazione massima della capacità della ragione umana di percepire la verità pratica, ovvero il senso reale degli atti umani nella loro relazione con la vita come un tutto. Questo significa che la norma morale è la miglior difesa di uno stile di vita. È lo stile di vita che richiede l’esistenza della norma per non deformarsi.

Già Aristotele aveva sviluppato il concetto di razionalità pratica, in cui si esplicitava l’eticità delle azioni a partire dalla loro intenzionalità, che non è tecnica (non termina in un’opera esterna), ma morale (il suo oggetto è la bontà della persona che agisce).

La centralità che lo Stagirita dà alla relazione dell’atto con la felicità è tale che egli non considerò possibile che le norme, per quanto giuste, possano definire in modo completo la moralità degli atti concreti. La vita felice, verso cui devono dirigersi gli atti virtuosi, deve incontrare cammini che in ogni momento potrebbero raggiungere il grado maggiore di felicità. Egli non considerò possibile l’esistenza di atti concreti sempre cattivi.

La recezione cristiana del pensiero aristotelico assunse la questione della razionalità pratica e il valore intenzionale, e non meramente fisico, degli atti; tuttavia, di contro, rigettò la conclusione della non esistenza di questi atti intrinsecamente cattivi: “Philosophus errat”. Il motivo della differenza su questo punto è il nuovo concetto di felicità che il cristianesimo incorpora e che si radica nell’alleanza con Dio, che può spezzarsi a causa di un atto di infedeltà. In questo modo è possibile che un atto spezzi la sua relazione con l’Alleanza e interrompa l’autentica felicità che deve essere definita come una vita in comunione.

Paul Beauchamp ha chiarito come il concetto biblico di legge sia inseparabile dall’Alleanza e pertanto la legge biblica non è l’imposizione di una volontà ma la direzione di un cammino. La Pontificia commissione biblica lo conferma affermando: «Si vede dunque che la morale è molto più che un codice di comportamenti e atteggiamenti. Essa si presenta come un “cammino” (‘derek’) rivelato, regalato: Leitmotiv ben sviluppato n el Deuteronomio, presso i profeti, nella letteratura sapienziale e nei salmi didattici» (Bibbia e morale. Radici bibliche dell’agire cristiano, n. 20).

Una posizione dialettica – o norma o stile di vita – non corrisponde quindi alla logica interna della moralità cristiana che, in quanto cammino, è uno stile di vita che richiede una norma. La verità narrativa della vita umana, che ha un fondamento biblico molto chiaro, passa attraverso la verità di un amore che include in sé la normatività. Dal punto di vista cristiano è il dono dell’amore che fonda i comandamenti: «Il comandamento di Dio non è mai separato dal suo amore: è sempre un dono per la crescita e la gioia dell'uomo. […] In tal modo il dono si fa comandamento, e il comandamento è esso stesso un dono» (Evangelium vitae, n. 52).

Lo sviluppo della teoria dell’oggetto morale, di grande interesse teologico, servì per classificare questa profonda unità poiché fu capace di determinare il bene morale oggettivo in una specifica azione, senza cadere né nel fisicismo del bene considerato solo come il risultato di un’azione, né nel soggettivismo di una mera intenzione generale. La verità intenzionale dell’agire umano permette di inserirsi nella correlazione esistente tra entrambi i poli che è il bene stesso della azione. Un furto non è scorretto per quello che si ruba o per la cattiva intenzione – può essere che si rubi per motivi altruistici –, ma per l’azione di appropriarsi di ciò che appartiene ad altri. Questo non si determina a partire da un osservatore imparziale ma «per poter cogliere l’oggetto di un atto che lo specifica moralmente occorre quindi collocarsi nella prospettiva della persona che agisce. Infatti, l'oggetto dell'atto del volere è un comportamento liberamente scelto» (Veritatis splendor, n. 78).

L’esistenza di norme relative alla sessualità umana

Lo stesso riferimento che fa la Veritatis splendor all’Humanae vitae ha lo scopo di scoprire in essa il valore della norma che specifica un atto intrinsecamente malvagio. Si salva così l’obiezione di fisicismo che si alzò contro questa enciclica. Già Karol Wojtyla, nello scritto che inviò a Paolo VI in preparazione dell’enciclica, chiariva questo tema in modo personalista. Solo a causa dell’ignoranza del processo di redazione dell’enciclica la si può accusare di cadere in un naturalismo biologicista.

L’unità profonda del corpo e dell’anima della condizione umana, che si esprime specialmente nella dinamica dell’affettività, è una luce imprescindibile per vincere o il dualismo radicale di un approccio dualista kantiano, che sempre è stato particolarmente cieco relativamente alla verità della sessualità, o del teologismo anglosassone, che lo vede in forma utilitaristica. Si apprezza così l’importanza della posizione che l’Humanae vitae assunse contro questi due sistemi etici che erano preponderanti negli anni Sessanta. Il modo culturale attuale di comprendere la sessualità è molto miope a causa di un emotivismo radicale sorto da una coniugazione frammentata dei due sistemi etici che abbiamo menzionato. Si è giunti all’estremo di estendere l’idea secondo cui solamente la violenza potrebbe essere un uso illecito della sessualità.

Si deve proporre un principio di integrazione personale e naturale in questo ambito: «si può leggere il significato specificamente umano del corpo. In effetti le inclinazioni naturali acquistano rilevanza morale solo in quanto esse si riferiscono alla persona umana e alla sua realizzazione autentica, la quale d'altra parte può verificarsi sempre e solo nella natura umana» (Veritatis splendor, n. 50).

La terminologia dell’Humanae vitae concorda con questo poiché parla di significati della sessualità. Si riferisce a «i due significati dell’atto coniugale: il significato unitivo e il significato procreativo» (n. 12). In questo modo: così come è facile comprendere l’immoralità di un atto imposto al coniuge, anche se inserito in una retta vita coniugale, ugualmente lo stesso atto, che privi del significato procreativo la relazione intima, sarà disonesto. Il valore personalista di questa concezione fu dichiarato da Giovanni Paolo II a partire da una lettura cosciente e responsabile di questi significati: «In tal modo, l’“intima struttura” (ossia natura) dell’atto coniugale costituisce la base necessaria per un’adeguata lettura e scoperta dei significati, che devono trasferirsi nella coscienza e nelle decisioni delle persone agenti» (Udienza generale, 11.7.1984).

I metodi naturali e lo stile di vita

La liceità di quelli che sono chiamati metodi naturali della regolazione della natalità non nasce quindi da un timore nei confronti dell’artificiale, ma dal rispetto del valore morale dei significati della sessualità. Non sono buoni in quanto “naturali”, sono leciti perché si fondano in uno sguardo responsabile circa la sessualità umana. Non interferiscono sull’atto coniugale ma riconoscono il valore della sessualità. Sarebbe per questo più conveniente chiamarli “metodi di conoscenza della fertilità”, poiché in tal modo specifica meglio il loro contenuto.

Per questo, lo stesso insegnamento di questi metodi, che si basa sulla conoscenza della sessualità nel dialogo reciproco, non può essere ridotto agli aspetti tecnici della biologia, ma deve portare alla sapienza del valore umano della sessualità. Essi permettono la lettura attenta del linguaggio del corpo e dei significati insiti alla condizione sessuale umana. In essi, ogni volta sempre più, si comunica un autentico stile di vita che trova luce nel rispetto della norma indicata dall’Humanae vitae dentro la visione integrata della sessualità di cui abbiamo parlato prima. Questa è la saggezza reale che l’enciclica del beato Paolo VI ha desiderato trasmettere.

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