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Moralia Dialoghi

Immagini deformanti: tra storiografia e ritratti del "mostro" Lutero

Il "mostro" di Sassonia

«Fu portato in Modena una depintura de uno monstro nato in Saxonia de una vacha, el quale ha una testa quasi humana et ha una chiericha et uno scapulario de pele come uno scapulario de frate et le braze denanze e le gambe e pede come de porcho, e la coda de porcho; se dice è uno frate che se domandava Martin Utero che è morto, el quale pochi anni fa predicava la heresia in Lamagna»: così, in una nota del 26 marzo 1523, il cronista modenese Tommasino Lancelloti offre una delle prime figurazioni del Riformatore destinate ad avere larga circolazione in Italia.

Le sembianze deformi del «mostro di Sassonia» sono destinate a rapida e ampia fortuna nella propaganda popolare, che metteva così in guardia dal pericolo dell’eresia. Nei tempi un po’ più lunghi della storia, però, esse appaiono declinare per lasciare il posto alla discussione teologica, alla controversia confessionale tendente a improntare e a dare valore legittimante al profilo storico-biografico dell’Ercole di Germania. Al teologo conterraneo di Lutero, Johannes Cochlaeus si devono in questo senso le prime, e per certi versi decisive, opere di successo storiografico, veri bests sellers, circolanti in tutta Europa. Egli pubblicherà, infatti, l’Adversus cucullatum Minotaurum Wittenbergensem, pubblicato nel 1523 e, soprattutto, i Commentaria de actis et scriptis Lutheri usciti a stampa tre anni dopo la morte dello stesso Lutero, avvenuta ad Eisleben nel 1546. Tra le varie caratteristiche egli è descritto come familiare del demonio, roso da livore e invidia, falso e superbo fino alla ribellione.

Per la storiografia cattolica Cochlaeus fornisce per quasi quattro secoli l’ermeneutica volta a spiegare ai fedeli rimasti nell’ortodossia cattolica Lutero – e la Riforma da lui nata –, ponendo la ricostruzione storica, così come la discussione teologica, sul piano della polemica ideologicamente orientata. Nella biografia dell’ex frate agostiniano si individueranno quindi gli aspetti funzionali a tale interpretazione. In primo luogo, facilmente intuibile, il matrimonio con l’ex-monaca Katharina von Bora, che permetteva di affiancare – facendoli risaltare – i cedimenti sul piano teologico-spirituale con quelli sul piano etico-sessuale di Lutero.

Nell’aprile del 1850, il tema del frate «laido», avaro e orgoglioso sarebbe stato ripreso dal gesuita Matteo Liberatore nel primo numero de La Civiltà Cattolica, la nuova rivista con la quale la Compagnia di Gesù intendeva dare il proprio contributo alla «santa crociata […] contro la invasione della eterodossia». E le caratteristiche peculiari dell’ex-frate – descritto come doppiamente colpevole, proprio perché venuto meno anche alla vita religiosa per la quale si era solennemente impegnato – sono ribadite: «audace, scaltro, protervo, ardente di superbia e di libidine».

 

Un limitato cambio di passo

Decisiva per un cambio di passo nella lettura cattolica della vicenda luterana è la complessa biografia Luther und luthertum in der ersten Entwickelung (1904, trad. it. Lutero e il luteranesimo nel loro primo sviluppo), pubblicata dal domenicano Heinrich Denifle. Tra gli esponenti di punta della storiografia cattolica di fine Ottocento, egli è stretto collaboratore del cardinal Franz Ehrle prefetto della Biblioteca Apostolica Vaticana, da poco aperta agli studiosi da papa Leone XIII. In questo lavoro, divenuto in brevissimo tempo il punto di riferimento per la storiografia cattolica, l’interpretazione dell’apostasia di Lutero è relativamente semplice. Brillante dal punto di vista intellettuale, ma teologicamente formato su basi incerte, il frate ribelle non sarebbe stato un esempio di vita religiosa, perché troppo segnato da un carattere irruente, prorompente, predisposto al cedimento nei confronti delle perverse attitudini morali. Influenzato dallo sviluppo delle nuove scienze sociali e dalla psicologia, Denifle riveste di rinnovata forma la pregiudiziale interpretazione controversista della figura del frate ribelle individuando nella disperazione umana il punto più basso toccato da Lutero. Egli ne esce così ritratto come irresistibilmente cedevole nei confronti della lussuria, della cupidigia, della concupiscenza, della rilassatezza spirituale, e al tempo stesso persuaso che alla propria salvezza può giungere da sé, senza quella mediazione che la Chiesa gli offre nella preghiera e nelle opere di misericordia.

Anche per il suo carattere di aperta contrapposizione, su un piano scientifico, con la letteratura nel frattempo in larga diffusione in campo luterano e in quello liberale, l’opera del Denifle – in parte temperata dalla successiva monografia del gesuita Hartmann Grisar (uscita nel 1926) che, liberando Lutero dalla depravazione lo considerava soprattutto vittima della propria presunzione e del proprio pessimismo – ha avuto grande influenza. Indubbiamente è essa che ha innervato, direttamente o indirettamente, la storiografia cattolica per gran parte del Novecento e, per lo meno fino al concilio Vaticano II, soprattutto nelle sue parti polemicamente più aggressive e insultanti. Si prenda, ad esempio, l’articolo pubblicato in occasione del quarto centenario della pubblicazione delle 95 tesi, nel 1917, dalla Civiltà Cattolica che riprende già a partire dal titolo la tesi del Denifle (nel frattempo morto): «da Lutero cominciò quella indegna parodia, con la quale il ribelle monaco attribuiva a Dio le idee, le bestemmie, le infamie della sua mente pervertita […] gittò la tonaca sull’albero di Giuda in nome di Cristo, e in nome di Cristo si congiunse con una sacrilega».

 

Il secondo dopoguerra

Carica di tale secolare bagaglio, la storiografia cattolica sembra impreparata al rinnovamento postconciliare con le sue aperture ecumeniche, incapace, soprattutto nelle grandi sintesi manualistiche, di affrontare la vexata quaestio di Lutero senza uscire dal problema del “dentro o fuori”, “ortodossia o eterodossia”. Alla fine degli anni ‘60, ad esempio, in Italia vede la luce per i tipi della casa editrice SAIE la traduzione della Storia della Chiesa, pubblicata nell’immediato Secondo dopoguerra in Francia a cura di Augustin Fliche e Victor Martin. In essa il gesuita Edmond de Moreau, professore di storia a Lovanio, scomparso già nel 1952, curatore del volume sulla crisi religiosa del XVI secolo, intitolava il capitolo di apertura del volume, ancora una volta, Lutero e il luteranesimo. Continuava a qui permanere l’appello alla psicologia per comprendere l’atteggiamento ribelle del frate agostiniano, che «malgrado la sua intelligenza, resta soprattutto un emotivo […] di temperamento impetuoso, oratorio, egli è portato ad esagerare e a drammatizzare». Non mancava peraltro l’apertura a una visione più conciliante, col ricorso ad improbabili ossimori come quando si cercava di dimostrare che in virtù di tale carattere «quando [Lutero] afferma l’opposto della verità non va quindi accusato troppo in fretta di menzogna».

Allo stesso modo, il gesuita Giacomo Martina nel primo volume della sua fortunata opera su La Chiesa nell’età dell’assolutismo, del liberalismo, del totalitarismo, pubblicato da Morcelliana nel 1969, farà riferimento all’“esuberanza” di Lutero per comprenderne il comportamento, mentre Hubert Jedin, il grande storico tedesco del Concilio di Trento e curatore della Storia della Chiesa edita in Italia da Jaca Book, sembra quasi voler rinunciare a sciogliere l’enigma, ritenendo Lutero «troppo spesso esposto ai rischi del suo temperamento irascibile e della sua violenza polemica [da rendere] difficile comprenderne la figura e l’opera». Joseph Lortz nel volume su La riforma in Germania, uscito nella traduzione italiana di Gianfranco Ferrarese alla fine degli anni ‘70, evidentemente sollecitato dalle novità conciliari in materia di attenzione al primato della parola di Dio, pone l’accento sul limite che, a suo dire, avrebbe caratterizzato il rapporto tra Lutero e la Scrittura: «Egli che voleva affidarsi senza riserve alla parola di Dio, non ne è mai stato un ascoltatore nel pieno significato del termine».

Una considerazione a parte deve essere fatta per il Lutero – nel quinto centenario della nascita – di Giuseppe Alberigo, «dono per la chiesa universale» che la «Provvidenza buona ha fatto»; è indiscutibile che questa lettura, eredità di una tradizione di confronti storiografici in campo aperto, presenta indubbi elementi di novità. Si tratta di una lettura da parte di uno studioso cattolico che ha saputo superare l’approccio della “teologia della storia”, ereditata dal suo maestro Jedin, per introdurre i principi della critica storica. Benché non senza resistenze, che si intrecciano con l’interpretazione dello “spirito del Vaticano II” interpretato dalla scuola di Bologna di cui Alberigo è stato il maestro, tale approccio ha lasciato un segno indelebile nella storiografia cattolica alla fine del Novecento.

Ma è il gesuita spagnolo Ricardo Garcia-Villoslada, autore di una biografia edita in Italia dall’Istituto di Propaganda Libraria e arricchito da una breve nota del card. Carlo Maria Martini, a fornire esplicitamente, senza perifrasi, i criteri che guidano lo storico cattolico nel guardare agli avvenimenti messi in moto da Lutero: «Se una donna è stata calunniata, vilipesa, ricoperta di sputi, maledetta da un uomo potente e influente, è naturale che quando quest’uomo passi alla storia non sarà facile a un figlio di quella donna scrivere la biografia serena, imparziale, obiettiva, freddamente critica e giustificabilmente laudativa di chi ha oltraggiato, colpito ed esecrato sua madre, anche se metterà nel suo lavoro la migliore buona volontà».

 

Sfide della storiografia cattolica nell’era moderna

Vittima, dunque, di una sorta di “complesso di Edipo”, la storiografia cattolica sembra non riuscire a liberarsi dal paradigma con il quale ha sempre guardato al suo passato, considerato – da Eusebio di Cesarea a Benedetto XVI – come historia salutis nella quale si narra la fedeltà della parola di Gesù Cristo: «Ecco, io sarò con voi fino alla fine del mondo» (Mt 28, 20). In questa chiave interpretativa non c’è spazio per ipotesi diverse da quelle dello schieramento da una parte o dall’altra, dalla parte della verità o da quella dell’errore, dalla parte della Chiesa cattolica o da quella della “eresia”. Se per oltre quattro secoli, le ragioni della rottura sono state fatte risalire volta a volta all’influenza del dominio, alla malafede o al carattere irruento del frate ribelle, ora, nel clima dei mutati rapporti tra le Chiese, si sente la necessità di attribuire a errori teologici o esegetici la spiegazione di una scelta radicale, che ha portato il frate agostiniano a diventare protagonista della storia.

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