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l'Ospite

Dove batte il cuore della Rete

Le recenti elezioni presidenziali negli Stati Uniti che hanno visto il trionfo di Donald Trump – in particolare grazie alla comunicazione mirata sui social network Facebook e Twitter che lo davano già in vantaggio nel duello con Hillary Clinton – portano nuova linfa al dibattito sull’utilizzo dei big data in politica e sul ruolo dei social media nelle campagne elettorali.

 

È possibile catturare i trend in atto nell’opinione pubblica guardando al «sentiment» della Rete? E in che modo i social media possono essere uno strumento utile per monitorare l’andamento di una campagna elettorale? Ne parliamo con Luca Manassero,1 esperto d’informatica, in particolare di tecnologie cloud, e dell’analisi del «tono» delle conversazioni nella rete digitale.

– Che cosa vuol dire fare analisi del sentiment nella Rete?

«Fare sentiment analysis significa fare “ascolto” di tutte le voci che attraversano il web e che sono filtrate in base ad argomenti o a marchi, ed essere in grado di capire con quale stato d’animo le singole persone ne parlano. Il significato dall’inglese non è troppo distante da quello italiano: non si tratta naturalmente dei sentimenti più profondi, ma degli stati d’animo che possono avere diverse variazioni. Tra queste se ne distinguono cinque principali: stato d’animo neutro, positivo, negativo, molto positivo, molto negativo.

Ascoltare il web però non significa ascoltare tutto il mondo – questo non va mai dimenticato –, il web non è il luogo dove ogni persona interagisce su ciò che vuole, sente e interessa. L’ascolto prende in esame un sottoinsieme di individui che nel mondo occidentale può essere significativo, ma al di fuori di esso lo è molto meno. In altre parole fare sentiment analysis della Rete non significa capire cosa pensa la gente, ma comprendere “forse” in che modo si relaziona una certa fetta di persone in base a un determinato argomento».

– Perché allora è importante e, soprattutto, qual è lo scopo?

«Se un esponente politico sceglie di relazionarsi moltissimo attraverso il web, misurare il sentiment in relazione a quella persona diventa molto significativo, e questo è il motivo per cui il mondo politico da un paio d’anni acquista regolarmente dei report sull’andamento del loro personal brand, in quella settimana o mese, con misurazioni altamente sofisticate a seconda della piattaforma social che utilizzano per comunicare».

– Twitter e Facebook sono oramai le due piattaforme social più popolari, ma sono anche molto diverse tra loro, sia per l’utilizzo sia per le politiche sulla privacy… Come funziona l’accesso ai dati forniti da queste fonti on-line per analizzare in profondità i dati?

«Twitter è una fonte di informazioni gigantesca per chi fa analisi del sentiment: basti pensare che oltre alla disponibilità del contenuto ogni tweet porta con sé anche l’ora e la posizione geografica da cui è stato inviato il messaggio (che viene registrata quando si sta interagendo da un dispositivo mobile).

Mentre per quanto riguarda Facebook, i dati delle singole persone, che fino a tre anni fa erano disponibili (si poteva ottenere quasi tutto ciò che gli utenti non avevano volontariamente bloccato), ora non lo sono più. Infatti per risolvere i problemi di privacy Facebook ha ceduto la gestione dei propri dati a delle parti terze, che sono responsabili di renderli anonimi e sono diventate in qualche modo una rete di aziende che mette in vendita queste informazioni a prezzi molto alti.

La più famosa che rivende i dati di Facebook è la DataSift: distribuisce un prodotto, Pylon, che costa mediamente una cifra di accesso di 10.000 $ al mese. Quindi per aver accesso a questi dati si pagano oltre 120.000 $ all’anno, e questo è il motivo per cui non tutti possono acquistarli, ma chi può permetterselo ha accesso a una mole immensa di informazioni con profilature estremamente precise su cui ovviamente si fa traduzione dei dati, ovvero sentiment analysis».

– Nel corso della campagna elettorale Trump ha scelto di comunicare moltissimo anche attraverso i social... Se volessimo fare un’analisi del voto statunitense alla luce della sentiment analysis come potremmo spiegare la sua vittoria?

«Da alcuni anni a questa parte è chiaro ormai che i social media influenzano enormemente il voto. A parere di un informatico, Trump ha saputo sfruttare questo aspetto meglio della Clinton, servendosi in maniera più diretta di Twitter, che negli USA è puù diffuso che in Europa. Attraverso una comunicazione mediata dai social, ha scelto infatti di orientarsi verso quella fetta di potenziali elettori che interagiscono molto sul web, utilizzando anche lui gli stessi canali social media più popolari in America».

I post di Trump non sempre sono stati “politically correct” – mi riferisco agli insulti razziali e alle offese contro donne e disabili –: come si spiega allora questo successo sui social?

«Il marketing ha una neutralità potenziale che si spinge ben oltre i limiti del cinismo… Credo che Trump, al di là della persona che è realmente e di come si presenta, abbia scelto con attenzione gli insiemi numerici dei propri potenziali elettori. Lui non è certamente politically correct e per questo motivo ha privilegiato una comunicazione mirata verso gruppi di persone per le quali quel tipo di linguaggio non solo è accettato ma è anche significativo. E si è semplicemente disinteressato di tutti gli altri, di tutto il resto dell’opinione pubblica americana più sensibile ai valori da lui non riconosciuti. Questo è un dato molto preoccupante per la democrazia negli anni a venire, perché il rischio è quello di “ritagliare” la comunicazione sul gruppo numericamente più rilevante per vincere».

– Quindi si potrebbe dire che i social stiano già influenzando i processi politici? Quali rischi potenziali si nascondono dietro l’utilizzo di questi strumenti?

«Certamente l’utilizzo sempre più mirato di questi strumenti di comunicazione rischia d’influenzare fortemente anche i processi politici della democrazia tradizionale, facendo sì che non siano più gli elettori a scegliersi il politico che li rappresenta, bensì il politico a scegliersi gli elettori. E questo fa tutta la differenza!

Si potrebbe dire che il dato veramente epocale in queste elezioni è il rovesciamento di paradigma: non sei più tu, elettore, che decidi il candidato politico che ti rappresenta, ma è il politico che sceglie di somigliare a te. E se tu fai parte di una serie di gruppi sufficientemente numerosi da garantire la vittoria, diventi un obiettivo di estremo interesse per quel tipo di comunicazione mediata dai social. Per questo il problema enorme è il rischio che gli schemi democratici a cui siamo abituati vengano potentemente messi in discussione da questi strumenti».

 

a cura di

Maria Caterina Bombarda

1 Dopo il baccellierato in filosofia presso la Pontificia università San Tommaso d’Aquino a Roma, Luca Manassero si è dedicato prevalentemente all’informatica, prima come sviluppatore di software, poi come manager dei sistemi informatici per una grande azienda statunitense. Ha successivamente co-fondato due startup e da tre anni è coinvolto in un progetto di analisi di grandi quantità di dati personali sul web con la startup italiana Shamat (www.shamat.co). Tale progetto, denominato «startup.focus», fa parte di un programma globale coordinato dal colosso tedesco dell’informatica industriale SAP (startups.sap.com) per sostenere l’avvio di nuove imprese. Il suo lavoro attuale è centrato in particolare sulle tecnologie cloud e le tematiche di analisi del «tono» delle conversazioni reperibili sul web, sia nei social network che in altri siti di pubblico accesso.

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