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l'Ospite

Grandi diseguaglianze crescono

Il recente Rapporto Oxfam (dati 2016) conferma la crescita delle sperequazioni a livello mondiale e all’interno delle singole aree, regioni e stati. Gli otto uomini più benestanti del pianeta detengono una ricchezza pari a quella posseduta dalla metà più povera della popolazione mondiale (3,6 miliardi di persone). L’80% degli abitanti del mondo detiene appena il 4,1% della ricchezza (con un reddito medio di 3851 dollari), mentre l’1% più ricco da solo detiene il 50,8% della ricchezza mondiale (con un reddito medio pari a 2,7 milioni di dollari l’anno).

In Italia – divenuto il paese europeo caratterizzato dall’indice di diseguaglianza (Gini) più elevato - il 20% più ricco della popolazione detiene il 69% della ricchezza complessiva; il 40% più agiato addirittura l’86,6%: il rimanente 60% della popolazione si deve accontentare del 13,3% della ricchezza nazionale. Al 20% più povero (12 milioni di persone) rimangono le briciole (0,06%). Sempre secondo il rapporto Oxfam, infine, il 25% della ricchezza nazionale è concentrato in mano all’1% più benestante della popolazione.

Il magistero sociale della Chiesa, fondato sull’insegnamento dei Padri, ha sempre dedicato particolare attenzione alla funzione sociale del possesso dei beni. Tommaso D’Aquino se ne occupa nella Summa Theologiae (ST 2-2, q. 67 e 77): alla sua dottrina si rifanno anche i più recenti testi magisteriali conciliari e pontifici (Mater et Magistra 11, Pacem in terris 10, Gaudium et Spes 69.71, Populorum progressio 23 – secondo la quale la proprietà privata non costituisce diritto assoluto e incondizionato – Laborem exercens 14, Sollicitudo rei socialis 42, Centesimus annus 30s.).

Si comprende dunque come le forti sottolineature presenti nel magistero di papa Francesco atte a porre in guardia nei confronti di eccessivi squilibri – in continuità con l’insegnamento dei suoi predecessori (particolarmente Benedetto XVI, Caritas in veritate 21.25.32) – non costituiscano semplicemente un religioso auspicio, ma siano intimamente connesse alla teoria economica e alle dinamiche di sviluppo sostenibile sotto il profilo dell’“ecologia umana integrale” (cf. in particolare Evangelii Gaudium 53-60.186-192 e Laudato si’ 90: “Ci dovrebbero indignare soprattutto le enormi disuguaglianze che esistono tra noi, perché continuiamo a tollerare che alcuni si considerino più degni di altri […] che alcuni si sentano più umani di altri, come se fossero nati con maggiori diritti”).

Altrettanto forte e urgente è il richiamo da parte del magistero di Francesco all’azione coerente da parte della politica e dei governi, tesa a creare le condizioni affinché possa darsi crescita sostenibile ed equilibrata (LS 57.127.129.203; Discorso al Parlamento Europeo di Strasburgo, 25-11-2014; Discorso in occasione del ricevimento del Premio Carlo Magno, 6-5-2016), soprattutto attraverso l’accesso al lavoro umanizzante e a condizioni di vita “abitabili” da ogni persona. Tale intervento attivo della politica nell’economia e nella finanza deve inoltre essere rispettoso della complessità delle problematiche umane, sociali ed economiche locali dei paesi e dei loro abitanti (LS 144), senza avere la pretesa di adottare ricette calate dall’alto che si presumano universalmente valide.

Ma la disuguaglianza economica interna ai paesi è davvero così negativa sotto il profilo delle dinamiche economiche? Già il secondo teorema dell’economia del benessere pone in evidenza come l’allocazione efficiente delle risorse non necessariamente corrisponda a una distribuzione equa e socialmente preferibile delle stesse. Negli ultimi anni si sono occupati di questo problema alcuni tra i maggiori economisti (es. J. Stiglitz, The price of inequality: how today's divided society endangers our future, 2012); la stessa OCSE in successivi studi ha posto in evidenza come l’aumento della disuguaglianza interna agli stati negli ultimi decenni sia fattore incoerente con la crescita stabile e socio-economicamente sostenibile nel lungo periodo. Tra indice di diseguaglianza economica (Gini) e indice di sviluppo umano e sociale esiste una correlazione negativa statisticamente rilevante, confermata in modo evidente dai dati empirici (Bagnai).

I dati mostrano che persino le democrazie più importanti del pianeta hanno assistito a una crescita delle sperequazioni – a fronte di un contestuale indebolimento della mobilità sociale – fattore di marginalità e precarietà delle condizioni di vita, quando non di vero e proprio impoverimento, di ampie fasce della popolazione (es. USA, Germania). Ciò indipendentemente dal colore e dall’orientamento politico dei governi che si sono succeduti.

La deregolamentazione della finanza e la conseguente finanziarizzazione dell’economia hanno condotto col tempo alla decisa compressione della quota salari rispetto alla quota profitti di capitale, all’acuirsi della polarizzazione nella distribuzione delle risorse e al progressivo spostamento verso economie ove il consumo delle famiglie e degli individui si basa sempre più sull’indebitamento privato anziché sui redditi da lavoro (rimasti per lo più stabili o cresciuti solo debolmente in termini reali, nonostante l’aumento della produttività). Le economie, si noti, si sono caratterizzate in questo senso soprattutto nei decenni che hanno condotto alle maggiori crisi mondiali dell’ultimo secolo (1929 e 2007); gli anni del secondo dopoguerra avevano invece seguito un diverso paradigma sino ai primi anni ’80, quando le disuguaglianze hanno ricominciato a crescere in concomitanza con le misure di liberalizzazione e deregolamentazione dei movimenti di capitale. Il visionario Dr. Michael Burry, tra i primi ad accorgersi degli squilibri in atto sul mercato immobiliare e a presagire il crollo dei mutui subprime al momento del passaggio dal tasso fisso all’indicizzazione variabile (secondo trimestre 2007), nel film “La grande scommessa” di Adam McKay esclama: “Il valore degli immobili continua a crescere, mentre i salari reali rimangono fermi: ciò significa che questi beni non sono assets, ma ‘debito’!”.

Le grandi crisi sono state causate precisamente dalla crescita delle disuguaglianze economiche e dall’eccessivo indebitamento privato, che ha portato all’esplosione di "bolle" finanziarie, trasmesse poi all’economia reale e ai debiti sovrani (diminuzione del reddito, recessione, crollo delle entrate fiscali e conseguente innalzamento del deficit pubblico e del rapporto debito/PIL). Ciò ha rafforzato la marginalizzazione del lavoro (compreso, giova ricordarlo, il lavoro artigianale e della piccola-media imprenditoria) – privato di tutele e rappresentanza – e il progressivo smantellamento dello stato sociale, dei servizi ai cittadini (sanità, istruzione – soprattutto in Italia, previdenza pensionistica, manutenzione del territorio), degli investimenti pubblici e privati. Assai incisiva in tal senso l’analisi di Benedetto XVI a poco più di un anno dal sorgere della crisi (CIV 21.25.32): molto lucidamente papa Ratzinger focalizzava anche la dolorosa ricaduta della precarietà professionale sulla frammentazione esistenziale e dei progetti di vita personali e familiari (“incertezza e instabilità psicologica endemica” – riecheggiano qui le riflessioni di Bauman), sulla coesione democratica e il deterioramento del “capitale sociale” nel tessuto civile.

Si è assistito altresì all’utilizzo massiccio del dumping sociale tra le stesse economie avanzate, al fine di favorire le esportazioni nazionali. La concorrenza è avvenuta sempre meno sulla qualità – paradigmatico il recente caso Volkswagen – e sempre più sui prezzi, attraverso il contenimento dei costi dei "fattori produttivi": anzitutto il lavoro e gli standard ecologici. Tutto questo, come sempre avviene quando si opera in regime di cambi fissi (o di unione monetaria: es. eurozona), ha condotto a ulteriori gravi scompensi e polarizzazione delle risorse.

Il rapporto tra paesi in strutturale surplus commerciale – come la Germania – e le altre economie dell’unione manca, infatti, del necessario fattore di riequilibrio delle partite correnti (saldo con l’estero), che consiste normalmente nell’aggiustamento del cambio tra le valute nazionali (secondo le dinamiche di domanda e offerta di mercato delle rispettive monete). Se a ciò si aggiunge che lo stesso paese strutturalmente in surplus quanto a saldo con l’estero ha operato "riforme strutturali" (promosse sia da governi "socialdemocratici", che conservatori) che hanno avuto l’effetto di precarizzare e marginalizzare economicamente intere fasce della popolazione interna (fenomeno dei cd. mini-jobs, parzialmente temperato dal sistema tedesco di protezione sociale e di reddito minimo, sconosciuto nei paesi periferici come la Grecia e l’Italia), si comprende quanto più incisive e dolorose nella carne dei settori sociali più deboli dei paesi periferici abbiano dovuto essere le "riforme" dettate dall’agenda dell’austerity. Le conseguenze sono state negative per la crescita degli uni e degli altri, a motivo della spirale deflazionistica intrinseca alla radicale debolezza e stagnazione della domanda.

Crescita dell’indebitamento privato e crisi finanziarie: la falsa narrazione sull’indebitamento pubblico

Come ormai va riconoscendo buona parte della letteratura economica (recentemente persino la stessa BCE), la crisi del sistema Italia (e delle economie del Sud Europa) non è stata generata dall’eccesso di debito sovrano – come invece sovente viene divulgato nell’opinione pubblica – ma di indebitamento privato. Nell’ambito di un sistema di cambi fissi (eurozona), senza possibilità di aggiustamento del valore della moneta nazionale secondo il principio di domanda-offerta sul mercato delle valute, paesi come la Germania (in strutturale surplus commerciale e nella bilancia dei pagamenti), hanno trovato sempre meno conveniente acquistare beni dalla periferia d’Europa. Di conseguenza la bilancia commerciale italiana è peggiorata negli anni precedenti la crisi: sia verso l’UE, sia verso i paesi extra-UE, essendo il made in Italy divenuto meno competitivo in quanto denominato in una valuta troppo forte come l’euro.

Contestualmente i privati (famiglie e imprese) dell’Europa periferica (Italia, Spagna, Grecia, Portogallo) hanno dovuto sovraindebitarsi nei confronti delle banche del Nord-Europa, al fine di acquistare (importare) beni e servizi. Il saldo con l'estero italiano ha conosciuto un miglioramento dal 2012 in avanti, dovuto soprattutto all'aumento dell'export trainato dalla deflazione salariale interna, congiuntamente al calo dell'import legato alla crisi di domanda (diminuzione del reddito disponibile). Se quindi il risultato in termini di saldo è tornato a essere positivo, resta tuttavia l'interrogativo sulla desiderabilità della sua composizione in termini di coesione sociale e radicalizzazione delle diseguaglianze (in costante calo anche la propensione al risparmio delle famiglie).

I dati, infatti, ci confermano che l’Italia non ha sperimentato sino al 2007 un reale problema di debito pubblico, ma un crescente sovraindebitamento privato (+71% rispetto al PIL dal 1998, anno della fissazione dei cambi, al 2007) causato dal funzionamento dell’unione monetaria: il rapporto debito/PIL a livello di finanze pubbliche era anzi calato di oltre venti punti percentuali nel quindicennio precedente (sceso da oltre il 120% sino al 99%). Dopo la crisi, invece, a causa della perdita secca di un quarto di PIL (denominatore) e delle minori entrate causate dalle politiche di austerity, il rapporto debito/PIL è lievitato in pochi anni di oltre trenta punti percentuali, nonostante il virtuoso controllo della spesa realizzato attraverso costanti avanzi primari (2% medio nell’ultimo ventennio). Il paese nel frattempo ha subito una vera e propria desertificazione del tessuto manifatturiero, che ha visto calare di circa un terzo la produzione industriale, regredendo di ben trent’anni ai livelli del 1986 (Bagnai). L'incremento del debito privato di imprese e famiglie italiane non si è arrestato al 2007: ciò spiega altresì lo stadio ormai sistemico raggiunto dalle sofferenze bancarie (problema non limitato a MPS e clientelismi politici).

Lo stesso sistema pensionistico italiano nella primavera del 2011, a pochi mesi dalla dolorosissima riforma Monti-Fornero, veniva ‘promosso’ dalla Commissione Europea come uno dei pochi sistemi previdenziali in equilibrio nell’ambito dell’eurozona. Se ne deduce che la riforma del sistema sia stata dettata da altre logiche (contenimento della spesa sociale), foriere di conseguenze molto negative sia sulle generazioni ‘anziane’ nel mercato del lavoro (si pensi ai centinaia di migliaia di ‘esodati’), sia su quelle più giovani (mancanza di turn-over occupazionale). Nel frattempo il nostro paese ha conosciuto una grave crescita degli indici di povertà (in termini assoluti e relativi, particolarmente drammatici nel meridione), il tasso di disoccupazione giovanile continua a sfiorare il 40%, a oltre dieci milioni di cittadini è precluso l’accesso alle cure mediche per motivi economici, mentre nel 2015 per la prima volta in quarant’anni l’aspettativa di vita è regredita in modo statisticamente rilevante.

L’attuale congiuntura di crisi di domanda ha fatto sì che politiche di contrasto alla disoccupazione che agiscano sul lato dell’offerta (es. jobs act e in genere tutte le misure adottate dai governi italiani in esecuzione della lettera Draghi-Trichet del 5 agosto 2011) si siano rivelate inefficaci. Analogamente la radice dei problemi occupazionali non è da ricercarsi nel sistema nazionale di istruzione e formazione professionale (peraltro operante da anni in regime di assoluta scarsità di risorse e investimenti, come testimoniano i dati OCSE): “Italy offers a competitive wage level (that grows less than in the rest of EU) and a highly-skilled worforce”, ammicca un recente opuscolo diffuso dal Ministero italiano per lo Sviluppo Economico tra i potenziali investitori stranieri. Viceversa si spiegherebbero con molta difficoltà le eccellenze italiane apprezzate in tutto il mondo in ogni ambito professionale e campo della ricerca, e i quasi cinque milioni di concittadini formati nel nostro sistema scolastico impiegati all’estero in occupazioni qualificate (con un incremento medio di 107mila unità ogni anno).

“Gesù ha guarito in giorno di sabato l’uomo dalla mano atrofizzata: restituì a quell’uomo la capacità di lavorare e con quella gli restituì la dignità. Quante mani atrofizzate, quante persone private della dignità del lavoro! Perché gli ipocriti, per difendere sistemi ingiusti, si oppongono a che siano guariti” (Discorso di Francesco in occasione del terzo Incontro mondiale dei Movimenti Popolari, 5-11-2016).

Deflazione salariale, crisi di domanda e condizioni per politiche di piena occupazione

È necessario a questo punto domandarci se l’abbandono delle politiche di piena occupazione, che dovrebbero costituire il prioritario obiettivo economico, sociale e costituzionale (art. 1 e 4), abbia relazione con l’‘ingiustizia sistemica’ verso cui il Papa ammonisce. L’ordoliberismo, traduzione nei trattati europei delle dominanti ideologie neo-liberiste e monetariste, è un sistema che ‘scarta’ e ‘uccide’? Per comprenderlo è necessario analizzare approfonditamente il funzionamento e le dinamiche di un’unione monetaria.

Già nel 1998 Paul Krugman (vincitore del Premio Nobel dieci anni più tardi) presagiva il possibile esito dell’avventura dell’unione monetaria europea (EMU): lo scivolamento verso una spirale deflattiva, che avrebbe colpito con particolare severità le aree periferiche del sistema stesso. Nel 1996 Rudiger Dornbusch (altro notissimo economista, collega di Krugman al MIT di Boston, prematuramente scomparso sei anni più tardi) poneva in guardia i paesi della nascente eurozona: in assenza di meccanismi di aggiustamento (dei quali l’EMU non si è mai dotata per colpevole assenza di volontà politica), la fissazione del cambio avrebbe sottratto il principale strumento shock-absorber messo a disposizione dal mercato qualora dall’esterno fosse sopraggiunta una crisi – come quella bancaria statunitense del 2007-08 – capace di provocare una pesante ricaduta sull’economia reale e deprimere fortemente la domanda mondiale. Lo strumento venuto meno è precisamente la dinamica dei mercati valutari: in presenza di un calo della domanda di beni italiani, in un regime di cambio flessibile si ridurrebbe anche la domanda di valuta italiana.

Conseguentemente la moneta nazionale si deprezzerebbe per effetto della dinamica del mercato delle valute. Tale deprezzamento non comporterebbe automatiche conseguenze iperinflattive in termini reali – ciò non è avvenuto per esempio dopo la svalutazione della lira nel 1993 - in quanto la dinamica interna dei prezzi dipende da una complessità di fattori, ove cruciale è il gioco dell’incontro tra offerta e domanda: il nostro sistema economico parte infatti da uno stato di ampia sottoutilizzazione del proprio potenziale produttivo (controprova: l’euro si è svalutato del 20% negli ultimi due anni, eppure permaniamo in piena deflazione). Il deprezzamento della valuta nazionale nei confronti dell’estero (attualmente si stima una sopravvalutazione di circa 25 punti percentuali) renderebbe invece più convenienti i beni italiani sul mercato europeo e mondiale, favorendo l’export e un più rapido riequilibrio dell’economia reale sui livelli produttivi pre-crisi: questa la strada virtuosamente percorsa dopo il 2007 da parte di Regno Unito, Polonia, Repubblica Ceca, Danimarca, Svezia (paesi UE senza euro).

In mancanza di tale strumento di aggiustamento, l’unico meccanismo sostitutivo rimane invece la deflazione salariale competitiva: ovvero l’abbassamento dei salari interni. Per ottenere questo risultato si implementano riforme che incidono sul mercato del lavoro riducendo le tutele dei lavoratori, favorendone la precarizzazione e la frammentarietà delle esperienze lavorative, creando disoccupazione: precisamente questo lo scopo delle cosiddette ‘riforme strutturali’ (pensioni, lavoro - jobs act, loi de travail: ci domandiamo perché in Germania esiste ancora l’art.18 e nessuno pensa di cancellarlo?). Di conseguenza l’unico strumento di riequilibrio diviene la creazione di ‘disoccupazione competitiva’ (poiché i salari inizialmente tendono a essere rigidi, prima che essi scendano verso il basso si assiste a un aumento del numero dei disoccupati: è il meccanismo descritto dalla cosiddetta ‘curva di Phillips’), che a propria volta implica minore reddito e domanda. Tutto ciò deprime ancor più la produzione interna, impoverisce le finanze pubbliche con il conseguente innalzamento del rapporto debito/PIL (soprattutto a causa della diminuzione del denominatore), provoca più profondi tagli alla spesa e smantellamento dello stato sociale, maggiore dipendenza dalle importazioni, ulteriore peggioramento del saldo commerciale con l’estero: necessità quindi di aggravare il taglio di prezzi, salari e occupazione interna al fine di riequilibrare il saldo delle partite correnti. Si tratta precisamente della ‘spirale deflattiva’ che Krugman presagiva.

Ma se nessuno crea valore, che solo il lavoro può creare, non si crea reddito: di conseguenza i rendimenti degli investimenti non possono che diminuire e approssimarsi allo zero. Corollario di tale dinamica è altresì la scarsa crescita della produttività. I salari infatti si abbassano tanto fortemente, il lavoro è talmente precarizzato, la domanda interna così bassa, che gli imprenditori non avvertono il bisogno di optare per innovazioni tecnologiche nel capitale incorporato che spingano verso l’alto l’offerta: tendono piuttosto a prediligere modalità produttive ad alta intensità di lavoro, che determinano una stagnazione della produttività. Tutto ciò concorre a deprimere la domanda mondiale, compromettendo la ripresa a livello globale, e genera forti tensioni sociali (es. il caso francese). Contribuisce altresì a provocare le crisi bancarie: meno salari, meno redditi, più sofferenze bancarie (crediti inesigibili). Non a caso la produttività italiana ristagna precisamente dai tempi della fissazione del cambio (1998): ciò sia a causa del calo della domanda (che cessa di trainare l’offerta e quindi l’accelerazione della ricerca e sviluppo tecnologici), sia a motivo dei tassi d’interesse troppo bassi (che permettono anche a imprese inefficienti di restare sul mercato; cf. A.Bagnai, Il tramonto dell’euro, 2012).

Le soluzioni di consenso (condivisione del debito a livello europeo – eurobond - e mutualizzazione del rischio bancario tramite un piano di assicurazione europea dei depositi: l’esatto opposto di quanto previsto dalle norme sul bail-in, già dolorosamente sperimentate dai risparmiatori italiani alla fine del 2015 a seguito delle crisi di Banca Etruria-Marche-Chieti-Ferrara), costituiscono le uniche vie che potrebbero teoricamente permettere di raggiungere un riequilibrio pure in presenza dell’EMU. Sono soluzioni che la Germania non pare purtroppo avere alcuna intenzione di perseguire. Il paese che più di tutti si è avvantaggiato della creazione dell’eurozona sembra rifiutare decisamente il modello democratico e solidaristico di Europa federale: predilige piuttosto un sistema intergovernativo, nel quale l’applicazione dei meccanismi di eccezione previsti dai trattati venga decisa di volta in volta sulla base di negoziati tra i capi di stato e di governo (esempio della Grecia, ma anche dell’Italia), ove prevalga il peso contrattuale del più forte e del creditore. La stessa Corte Costituzionale tedesca ha sancito l’incostituzionalità dell’eventuale partecipazione della Germania a un sistema economico federale che preveda trasferimenti automatici (cui andrebbe destinato circa il 10% del PIL tedesco; cf. L.Barra Caracciolo, Euro e (o?) democrazia costituzionale. La convivenza impossibile tra costituzione e trattati europei, 2013). Si comprende quindi come molti paesi con sbilancio commerciale nei confronti della Germania (incluse la stessa Francia e l’ex ‘sergente di ferro’ Finlandia) inizino a ipotizzare scenari di uscita dall’EMU. L’Italia, dopo la Grecia, insieme a Spagna e Portogallo, condivide la stessa preoccupante situazione (cf. il recente saggio del Nobel Joseph Stiglitz: The euro and its threat to the future of Europe, 2016).

Possiamo provare a concludere l’articolata analisi con una riflessione: non è possibile pensare di perseguire il bene del tutto, facendo il male delle parti. Tornando all’insegnamento sociale della Chiesa, ricordiamo la nota definizione di ‘bene comune’ data da Giovanni Paolo II nella Sollicitudo Rei Socialis (n.38): la “virtù della solidarietà non è un sentimento di vaga compassione o di superficiale intenerimento per i mali di tante persone, vicine o lontane. Al contrario, è la determinazione ferma e perseverante di impegnarsi per il bene comune: ossia per il bene di tutti e di ciascuno, perché tutti siamo veramente responsabili di tutti”. Quando in una relazione tra persone o tra Stati non esiste un’autentica propensione alla solidarietà, sono i più deboli, i più poveri e indifesi a pagare il prezzo maggiore: e il numero dei poveri nelle periferie aumenta sempre più, laddove più fragili ed esigue si fanno le protezioni sociali.

Sin qui i problemi e il grido del magistero del Papa: “Perché vi sia una libertà economica della quale tutti effettivamente beneficino, a volte può essere necessario porre limiti a coloro che detengono più grandi risorse e potere finanziario. La semplice proclamazione della libertà economica, quando però le condizioni reali impediscono che molti possano accedervi realmente, e quando si riduce l’accesso al lavoro, diventa un discorso contraddittorio che disonora la politica […] Si richiede dalla politica una maggiore attenzione per prevenire e risolvere le cause che possono dare origine a nuovi conflitti. Ma il potere collegato con la finanza è quello che più resiste a tale sforzo, e i disegni politici spesso non hanno ampiezza di vedute. Perché si vuole mantenere oggi un potere che sarà ricordato per la sua incapacità di intervenire quando era urgente e necessario farlo?” (LS, 129.57). Una corretta analisi è presupposto necessario perché l’intervento sia efficace, non demagogico e autenticamente rivolto al bene comune. Correggere gli squilibri attraverso la progressività della tassazione è possibile, ma solo parzialmente (es. Duncan-Sabirianova Peter, 2008). Solo il recupero della tutela e valorizzazione del lavoro, la creazione di condizioni di piena e stabile occupazione e il riallineamento dei redditi da lavoro alla produttività potranno consentire una riallocazione “a monte” delle risorse: dunque progresso stabile, sostenibile e “umanamente ecologico”. È ormai provato che precarietà e produttività sono negativamente correlate (cf. Dew Becker-Gordon, 2008; Damiani-Pompei, 2010: scarso è infatti l’incentivo aziendale a investire in formazione di personale non legato da rapporto di lavoro duraturo), così come che la produttività dipende inversamente dal livello della domanda aggregata.

Tra le condizioni necessarie perché ciò possa realizzarsi vi è la rinegoziazione di forme di controllo sulla mobilità dei capitali a livello internazionale. Il dislivello tra quota profitti da capitale e redditi da lavoro si è fatto più marcato a seguito delle riforme promosse dalle amministrazioni Reagan-Thatcher e dal ‘Washington consensus’, implementate dall’amministrazione Clinton con l’abolizione del Glass-Steagall Act (che prevedeva la separazione delle attività bancarie commerciali e d’affari) e assunte da trattati europei e WTO. Tali misure – a cinquant’anni da quelle adottate dopo la crisi del ’29 - hanno liberalizzato e deregolamentato i movimenti di capitale, consentendone la veloce delocalizzazione. Ne sono conseguite, secondo logica economica, la compressione dei salari nei paesi più avanzati e la radicalizzazione delle diseguaglianze negli stessi paesi meno avanzati. Presupposti necessari all’implementazione di politiche di piena occupazione sono anche la riappropriazione delle leve di azione fiscale e monetaria da parte delle sovranità nazionali, attraverso il ritorno dell’operatività degli istituti centrali di emissione (prestatori di ultima istanza) sotto forme di responsabilità politica e democratica, la rinegoziazione dei trattati e il superamento di unioni monetarie di aree valutarie non ottimali economicamente non integrate.

Sono necessarie in questo senso “misure che riducano l’enorme potere politico delle lobby. Come è possibile infatti che in Paesi prevalentemente democratici i 3,6 miliardi più poveri non vincano le elezioni contro gli 8 più ricchi? Il pericolo maggiore è che i super-ricchi abbiano talmente tanti soldi da poter orientare cultura e politica in modo tale da convincerci che questo stato di cose è il migliore dei mondi possibili” (Becchetti). Si tratta delle dinamiche di controllo dell’opinione pubblica bene approfondite da Noam Chomsky: secondo il noto problem-reaction-solution paradigm, sono sovente gli stessi poteri economici che hanno creato i problemi (esempio la grande crisi bancaria del 2007) a manovrare gli strumenti convincenti – attraverso i mezzi di informazione di massa e la politica asservita ai propri interessi – al fine di offrire una soluzione …vantaggiosa solo per se stessi.

Commenti

  • 21/01/2017 antogruso@libero.it

    Questo articolo mi piace molto dettagliato e chiaro.

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