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l'Ospite

Parlare di Dio (e farsi capire)

L'omelia: come parlare di Dio e farsi capire? Sono i Vangeli stessi a insegnarcelo, con il loro tipico modello comunicativo.

Papa Francesco, nelle prime pagine della bolla d’indizione del Giubileo della misericordia, lega la tematica dell’anno giubilare a uno dei grandi auspici del Vaticano II: «La Chiesa sente il bisogno di mantenere vivo quell’evento. I padri avevano percepito forte l’esigenza di parlare di Dio agli uomini del loro tempo in modo più comprensibile»[1].

La domanda evidente è: che cosa ha a che fare la misericordia con il parlare di Dio comprensibilmente? Tutto.

La somma manifestazione della misericordia divina non sta forse nel fatto che Dio ha «parlato, ultimamente, in questi giorni, a noi per mezzo del suo Figlio, costituito erede di tutte le cose» (Eb 1,1-2)? E Gesù, per la fede cristiana, non è forse colui che ha fatto un'«esegesi» definitiva di Dio, nel senso che ne ha parlato come non avevamo mai sentito prima di lui (Gv 1,17)?

Misericordia è poi un termine di sintesi, che nel Nuovo Testamento indica tutto l’agire di Gesù (parole e opere) nei confronti dei malati, degli esclusi, dei peccatori, identificato come l’agire stesso di Dio. A quelli che gli chiedono: «Perché tratti con questa gente della quale nessuna persona perbene vuole saperne?», la risposta di Gesù è rivelatrice: «Perché Dio è così: buono con i poveri, pieno di gioia nell'andare incontro a ciò che è perduto, guidato dall'amore paterno nei riguardi del figlio che aveva perso la sua dignità, clemente con quelli che non hanno speranza, con gli abbandonati e i bisognosi. Se Dio è così, vuole operare così attraverso di me che lo faccio presente».[2]

Se così stanno le cose, la conseguenza più logica è: dire Gesù è manifestare la misericordia di Dio. Già il fatto stesso di parlare di lui, di annunciarlo, è rendere palese l’amore di Dio per l’umanità. È questa la strada percorsa da tutto il NT, in particolare dai Vangeli. Sicuramente la pratica delle sette opere di misericordia corporali esprime concretamente l’eccedenza dell’amore cristiano, che si dedica all'altro più di quanto sarebbe normalmente auspicabile. Eppure questo esercizio, che è il punto focale della cristianità, si manifesta inizialmente con il parlare di Gesù. Saper parlare adeguatamente di lui affinché si evidenzi con chiarezza il suo messaggio, quindi la misericordia divina che egli ha per primo inteso trasmettere.

Le circostanze per l’annuncio sono tante e tutte degne di essere prese in considerazione. Ma un'occasione che possiede una serie di molteplici fattori incoraggianti e che in certo senso si presenta, senza non molti sforzi, ancora a portata di mano, è quella dell’omelia nella celebrazione dell’eucaristia domenicale. Il contesto liturgico-sacramentale che immette di per sé nel mondo della fede cristiana, l’ancora notevole partecipazione dei fedeli e la disponibilità all’ascolto, sono tutti elementi che inducono a non sciupare con superficialità il momento omiletico.

I consigli del papa e il «Progetto omelia»

L'Evangelii gaudium dedica all’omelia ben 25 numeri (135-159). E recentemente, tre uffici della CEI (Liturgico, Catechistico e delle Comunicazioni) hanno presentato ufficialmente il «Progetto Omelia»[3], un percorso di formazione permanente rivolto ai ministri ordinati per aiutarli a migliorare il proprio servizio omiletico. Infine, il fatto che ogni mattina il papa a Santa Marta ne tenga una durante la celebrazione, è un ulteriore segno di come un suo recupero non è influente per la comunicazione della fede per il nostro tempo.     

Un passaggio obbligato sono i Vangeli del NT. Possono essere considerati una primissima forma omiletica su Gesù. Quello che a noi qui interessa è la loro «comprensibilità». Ossia il loro specifico modo di rendere intellegibili i loro contenuti, che non è dato solo da una presentazione argomentata di quest’ultimi, dall’assicurare l’affidabilità delle fonti usate o da operazioni retoriche volte a persuadere i lettori, ma dipende anche da tutta una serie di fattori completamente indipendenti dalle intenzioni dell’evangelista-scrittore, che prendono corpo con la nascita stessa dei testi evangelici: dal loro modo di raccontare, dal genere di letteratura che producono rispetto a quelle coeve, dalle domande di senso che fanno nascere nel lettore.

Tutto questo stabilisce una sorta di statuto normativo con il quale i Vangeli chiedono di essere compresi e nello stesso tempo offrono i criteri per ogni altro annuncio cristiano futuro. Quindi ogni proposta d’annuncio cristiano non può evitare tale statuto di «comprensibilità» predisposto dai Vangeli, dal momento che rappresentano la più antica testimonianza testuale di predicazione organizzata. È possibile individuarlo almeno in tre caratteristiche: nella loro tipica comunicazione evangelica, nelle domande che suscita nei lettori e nella capacità di fornire modelli da ripetere.

La tipica comunicazione dei Vangeli

Una delle difficoltà che gli studiosi incontrano è quella di stabilire quale metodica comunicativa seguano i Vangeli per descrivere particolari episodi della vita di Gesù e la loro rilettura alla luce di alcuni avvenimenti e profezie dell’AT, e delle prime comunità che credettero in lui.

Il punto di partenza sembra sia stato il modo in cui Gesù stesso comunicava. Egli venne riconosciuto come avente un’autorità non paragonabile a quella degli scribi e dei farisei (Mt 7,28-29). Suo primo scopo non fu quello d’insegnare, di esigere obbedienza o di fornire argomenti su cui riflettere, bensì di porre gli ascoltatori a contatto con l’origine di tutto[4] e delle loro stesse persone: il «Padre nostro che è nei cieli». L’autorevolezza delle sue parole era fondata nella sua persona e nel suo stesso modo di parlare e di agire, nessun altro riferimento esterno s’imponeva a questi due. L’uso delle parabole e delle molte immagini simboliche prese dal vissuto concreto del suo tempo, dice per esempio su che tipo di argomenti fondava l’autorità delle sue parole: in un parlare immediato che anche persone molto semplici potevano intendere.

I Vangeli riflettono tutto questo. Il motivo principale per cui il loro genere letterario resiste a una collocazione troppo rigida tra quelli più noti del loro tempo non può non essere in definitiva ascritto alla volontà dei suoi compositori di attenersi a ciò che caratterizzò il Maestro di Nazaret.

Ora, un siffatta comunicazione nel momento in cui si fa strada nelle comunità credenti del mondo greco-romano è compresa secondo tre caratteristiche: occasionale, temporale, seconda.

  • D’occasione, perché l’annuncio della buona novella, destinato universalmente a tutti, di fatto mirava a rafforzare la fede delle comunità credenti che si richiamavano all’evangelista scrittore, fornendo ragioni per coloro che ancora non credevano o che ostacolavano la nascente fede. Non era però orientato a creare un messaggio religioso istituzionalizzato per essere accettato indistintamente da tutti.
  • Non interessata all’occupazione di spazi, ma a ottimizzare il tempo. Infatti sia la predicazione storica di Gesù, fortemente escatologica, che quella più direttamente ascrivibile ai suoi discepoli sulla definitiva venuta del Cristo alla fine dei tempi, sono orientate ad ottenere il massimo del vissuto evangelico per il proprio tempo e non al suo allargamento o consolidamento degli spazi geografici. Il comandato di ammaestrare tutte le nazioni (Mt 28,19), non è volto ad aumentare il numero dei credenti – quindi occupazione di nuovi territori – bensì al annuncio del vangelo a quante più persone possibili perché il tempo per farlo è poco. Per questo stesso motivo non si dovrà esitare sulla non-accoglienza di alcune città (Mt 10,14-15), ma volgersi subito ad altre. L’annuncio non è allora nella logica del dominio e della conservazione di ciò che già si ha: difesa delle tradizioni, delle consuetudini e delle culture, ma continuo raggiungimento di ogni persona lì dove essa si trova, con la sua vita, le sue sofferenze, i suoi desideri.
  • Infine, quella cristiana è intesa come una predicazione seconda perché come direbbe S. Paolo in 1Cor 1,21 «a Dio è piaciuto salvare i credenti con la stoltezza della predicazione» e «Cristo mi ha inviato a predicare il vangelo non con un discorso sapiente» (1Cor 1,17). Suo scopo non è l’attenzione di sé, l’eloquenza delle sue affermazioni e pronunciamenti, ma «Cristo potenza di Dio e sapienza di Dio» (1Cor 1,24). L’incompiutezza del discorso evangelico circa molte altre cose che avrebbe potuto raccontarci di Gesù, sulle quali invece si dilungano i cosiddetti vangeli apocrifi, potrebbe essere spiegata con il fatto che loro intenzione era solo quella d’introdurre a Gesù, per lasciare che ciascuno lettore ne facesse la propria personale esperienza.

Da questi tre elementi si può dedurre che il primo criterio di comprensibilità che il discorso evangelico presenta ai suoi lettori è la centralità della persona di Gesù. Se si vuole comprendere cosa trasmettono i Vangeli, bisogna continuamente riflettere su chi egli è. Che cosa disse, fece, pensò. In tal senso i Vangeli non forniscono di lui un ritratto esaustivo, ma appunto la categoria del non stancarsi di cercarne l’identità. 

 I Vangeli attendono le nostre domande

È un fatto pressoché unico se non del tutto raro, dal punto di vista della letteratura dell’epoca, che su di un personaggio come Gesù, tragicamente condannato a morte, non riconosciuto dal suo popolo e mancante di un proprio insegnamento scritto, si scrivessero dei racconti, il cui primo obiettivo non fu di divulgare un messaggio degno di consenso, ma per proporre una lettura della sua vita[5]. In sostanza i Vangeli s’impegnano a descrivere le ragioni per le quali Gesù non fu riconosciuto dai suoi contemporanei e lo fu invece, come attestato da numerosi passi della Scrittura, da Dio stesso[6]. Parlare di Gesù significa quindi anzitutto comprenderlo sia alla luce della Scrittura sia delle vicende storiche, culturali e sociali che il popolo d’Israele stava attraversando. Ma in che modo parlare di lui?

La formulazione di un discorso su Gesù dei primi credenti giudeo-cristiani, proposta dai Vangeli, è la combinazione di due fattori: la memoria relativa alle parole e ai gesti di Gesù e l’interpretazione degli avvenimenti che caratterizzarono i tempi immediatamente successivi a quello in cui Gesù visse, da parte dei profeti cristiani. La prima diffusione dei Vangeli dipese dal fatto che gli evangelisti decisero d’interpretare il loro tempo tramite il ricordo di parole, di brevi discorsi e di particolari episodi aventi come protagonista il maestro di Nazaret, e non ad esempio con le gesta di altri personaggi a lui coevi e ugualmente influenti, come fu il caso di non pochi rabbini[7]. In questo specifico ordine d’idee il mondo degli evangelisti e delle loro comunità rimase per molti decenni abitato dalla memoria di Gesù. Il suo grande carisma e la volontà di non molti giudei a lui contemporanei che optarono d’interrogarne l’esistenza per il loro presente, furono il punto di partenza della nascita dei Vangeli.

L’elemento di comprensibilità che in questo caso i Vangeli presentano con la loro scrittura che si fa largo nella lettura e nell’ascolto delle sue pagine è l’oggi. Parlare ai nostri giorni di Gesù, vuol dire allora ritornare sì ai Vangeli, ma ripercorrendo il percorso che ne determinò la nascita. Non si può non partire dall’oggi. Dalle sue sfide, dalle complessità che lo attraversano, dalla molteplicità delle ermeneutiche interpretative che un mondo globalizzato offre.

Se poi per la loro valutazione si ha il coraggio di superare i singoli particolari per assumerli in uno sguardo d’insieme e si decide di scegliere il punto di vista cristiano, per comprenderne il senso, i nodi e i punti di svolta, di fatto si opta per Gesù. Per la sua visione della vita e del mondo. In questa prospettiva la comprensibilità a partire da Gesù e dal suo Vangelo è risposta alle domande che i singoli e le comunità si pongono circa la loro vita e il loro mondo. Senza questa fondamentale interpellanza “di ciò che è nostro” alla luce “di ciò che appartiene a Lui”, non potrà essere allacciato nessun serio rapporto di continuità tra noi e Gesù. E fin dove il “noi” e il “del nostro tempo” non travisano ciò che è proprio “di Gesù” e viceversa, è riconoscibile da un’altra domanda che mai deve mancare: che cosa rende l’uomo veramente tale?  

I vangeli: una forma d’annuncio da ripetere

I Vangeli scelgono di raccontare Gesù attraverso una selezione di episodi e di detti posti in sequenza. Un’esigenza nata con il passare del tempo. Quando la difesa della fede cristiana e la ricerca di motivi validi per credere in Gesù, in contesti comunitari sempre più ampi, fanno emergere la necessità di una presentazione organica della sua vita. Per questo non bastava più rifarsi unicamente alla testimonianza orale, ma occorreva un discorso scritto ben organizzato.

L’annuncio cristiano con i Vangeli assume una sua forma propria. Non che prima di essi non ve ne ve ne fossero già di definite e autorevoli, basti osservare le lettere di Paolo[8]. Tuttavia la nascita dei Vangeli, così come li conosciamo oggi, determina l’insorgere di una forma «obiettiva» che fosse in grado di «rendere conto della solidità degli insegnamenti ricevuti» (Lc 1,4), universalmente, per tutti coloro che lo avrebbero desiderato credere. Non è un caso che i tre vangeli sinottici e, sebbene con delle differenze, il Vangelo giovanneo si somiglino.

La forma d’annuncio che con essi si afferma non riguarda solo l’aspetto esteriore del genere letterario, bensì in senso gestaltico, «la sua capacità di mettersi in rapporto, di esprimersi nella relazione, di comunicarsi senza riserve e senza parzialità, ma anche senza smentirsi o dileguarsi» (Regno-att. 12,2016,375). Comunicazione tra Gesù, la sua storia e quella delle comunità che credettero in lui. Sì, perché se, come già espresso, a livello dei racconti evangelici questi due momenti li troviamo legati insieme, la narrazione che con essi prende corpo realizza una storia identitaria nella quale le comunità credenti si identificano. E la lettura della loro trama diviene occasione per leggere la trama della loro particolare storia.

In quest’ultimo caso si può affermare che il grande sforzo operato dagli evangelisti, in modo speciale da Marco prima degli altri, di dare forma lineare e coerente a una grande abbondanza di pezzi tradizionali, è stato frutto di una decisione teologica senza pari. In questo troviamo l’ultimo appello che gli scritti evangelici lanciano verso di noi circa la loro comprensibilità: predisporre una trama di senso – in termini moderni fornire uno storytelling a nudi fatti altrimenti incomprensibili.

Si può dunque in definitiva dire che annuncio del Vangelo non significa ripetizione passiva di una nota dottrina, ma ripercorrere personalmente e comunitariamente la dinamica della decisione  fondamentale degli evangelisti di dare un corpo unificato ai brandelli del proprio vissuto. Sembra essere questo l’invito che i Vangeli ci lanciano: seguire Gesù nelle tappe della sua vita, segnate dai Vangeli, vuol dire porre ogni singola tappa della vita dei lettori sotto la luce della sua sequela[9]. Più che prontuari per cosa e come dire Gesù, i Vangeli forniscono allora modelli per come incontrarlo nuovamente nel nostro tempo storico e far sì che anche la nostra storia legata alla sua divenga storia significativa e unificata.

Conclusioni

Che i Vangeli siano riusciti effettivamente a rendersi comprensibili, ne è prova la lunga storia degli effetti prodotta lungo i secoli. Comprensibilità che tuttavia in non poche circostanze, non attuandosi secondo la dialogica predisposta dagli stessi Vangeli tra il mettersi in ricerca di Gesù e la vita concreta di coloro che optavano per lui, ha prodotto effetti nefasti. Lo splendore delle cattedrali romaniche e gotiche al centro delle antiche città d’Europa non è componibile con il disastro delle guerre di religione e fino alle più recenti violenze sessuali sui minori, eppure sono fatti della Chiesa che da millenni legge gli stessi Vangeli.

Snodo fondamentale rimane la disponibilità a lasciarsi interpellare dalla logica che presiede a tutta la sacra Scrittura in quanto segno della Parola viva di Dio scritta nel cuore di ogni essere umano (cf. Rm 2,14s), che è presente a ogni svolta della storia e non è mai solo documento che esaurisce i suoi effetti in ciò che produce. 

Quando invece si considera la comprensione di uno degli argomenti portanti dei Vangeli e di tutta la Bibbia ci si accorge che è stato un tema «imperdonabilmente trascurato»[10]. Il fatto che solo recentemente si sia riscoperta la sua centralità nelle pagine bibliche non è solo una colpa da addebitare alla scarsa attenzione avutane nel passato, ma può essere visto come dono provvidenziale della Parola che, letta nella situazione attuale del mondo, rende comprensibile se stessa circa questo grande tema.

In quest’orizzonte di senso l’omelia trova la sua fondamentale ragion d’essere nel servizio prestato al  “dialogo” di comprensibilità che si realizza tra i credenti nel mondo e lo Spirito che vivifica la Parola scritta attualizzandola per il presente. Quindi non è la parola omiletica che rende comprensibile la sacra Scrittura. Essa svolge adeguatamente il suo compito quando è capace d’inserirsi nella conversazione continuamente in atto tra Dio e il suo popolo, tra Dio e ogni singola creatura (cf. Evangelii gaudium, n. 137).

 

 

[1] Cf. Francesco, Misericordiae vultus, 11.4.2015, n. 4.

[2] J. Jeremias, Las parabolas de Jesùs. Estella 1970, 177 e 179.

[3] Per una presentazione dettagliata si rimanda all’articolo di S. Borello, «L’omelia, come atto di evangelizzazione: strumenti formativi», in F. Magnani – V. D’Adamo (edd.), Liturgia ed evangelizzazione. La Chiesa evangelizza con la bellezza della liturgia, Catanzaro 2016, 167-176.

[4] D. Savramis, Jesus überlebt seine Mörder, München 1973, 12.212.

[5] Cf. J.-N. Aletti, L’arte di raccontare Gesù Cristo. La scrittura narrativa del vangelo di Luca, Brescia 1991 (orig. fr. 1989).

[6] All’opposto, procedono, le biografie greco-romane. Il riconoscimento dell’eroe è il presupposto che spinge lo scrittore a parlarne e ad utilizzarne le gesta e gli eventuali discorsi per fini politici, apologetici, morali.

[7] Cf. J. Neusner, Why No Gospel in Talmudic Judaism? Atlanta 1988. 

[8] «Il Cristo crocifisso e sepolto predicato oralmente da Paolo e dai suoi collaboratori difficilmente avrebbe avuto un senso senza almeno un abbozzo della storia di Gesù»: G.N. Stanton, Gesù e il vangelo, Brescia 2015, 88 (orig. ingl. 2004).

[9] La sequela. Diventare discepoli di Gesù. Insegnare come mettersi concretamente al suo seguito è l’obiettivo dei vangeli. Il vangelo di Mc, ad esempio, secondo molti studiosi sarebbe una sorta di verifica catecumenale che i candidati al battesimo dovevano ripercorrere nei giorni precedenti la Pasqua. 

[10] Cfr. W. Kasper, Misericordia. Concetto fondamentale del vangelo – chiave della vita cristiana. Brescia 2013, 7-36 (orig. ted. 2012).

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